Gela. “Non avevo motivo di far uccidere Mendola. Sono innocente”. L’imprenditore edile gelese Giuseppe Cauchi, da anni residente in provincia di Varese, si è difeso davanti ai giudici della Corte d’assise di Novara. E’ accusato di essere il mandante dell’omicidio di Matteo Mendola. Il trentenne gelese, a sua volta trapiantato stabilmente a Busto Arsizio insieme alla famiglia, venne ucciso due anni fa nei boschi di Pombia, una frazione del novarese. Il cadavere fu ritrovato all’interno di un capannone abbandonato. Ad ucciderlo sarebbero stati Antonio Lembo (che ha confessato) e Angelo Mancino, condannati in primo grado a trent’anni di reclusione ciascuno. Per gli investigatori, l’ordine sarebbe partito da Cauchi, che avrebbe consegnato l’arma ai killer. Il giovane venne ucciso a colpi di pistola. Lo finirono fracassandogli il cranio, probabilmente con una vecchia batteria per auto. I pm novaresi sono convinti che Mendola fosse diventato un “fastidio” per l’imprenditore. Più volte, avrebbe chiesto che venissero saldati i debiti contratti dall’imputato con alcuni suoi familiari. Alle dipendenze di Cauchi, in passato, avrebbero lavorato alcuni parenti della vittima, che però attendevano ancora pagamenti arretrati. Il debito superava i quarantamila euro. “E’ vero avevano lavorato per me – ha proseguito l’imprenditore – ma i soldi avevo iniziato a darglieli”.
I difensori, gli avvocati Flavio Sinatra e Cosimo Palumbo, escludono che l’ordine di ammazzare Mendola sia partito dall’imprenditore. Fu Antonio Lembo a fare il suo nome agli investigatori, subito dopo l’arresto. In aula, nel corso dell’udienza, ci sono stati momenti di forte tensione. La madre di Mendola ha inveito contro Cauchi. La donna, insieme ad altri familiari, è parte civile nel giudizio. Sono tutti assistiti dai legali Giancarlo Trabucchi e Anna Maria Brusa.