Gela. Sempre per non piangerci addosso ma solo per ricordare ai nostri colonizzatori nordisti che non sono stati loro a mantenerci in quest’ultimo secolo, ma loro ad averci sfruttato con la loro politica di colonizzatori.
Desideriamo trattare alcune nostre eccellenze che esistevano prima della colonizzazione piemontese del Regno delle Due Sicilie. Era il lontano 1839 , esattamente il 4 ottobre, quando venne inaugurata, dal re Borbone, la Napoli-Portici, la prima rete ferroviaria in Italia di quasi 8 chilometri: esattamente 7,99 km. L’inaugurazione fu seguita con attenzione dal sovrano Ferdinando II, per tutto il tragitto di 15 minuti circa e ritorno, trattato da Michele Vocino nel suo testo “Primati del regno di Napoli” con dovizia di particolari.
L’anno successivo fu inaugurata la Milano-Monza e solo nel 1845, nel Veneto, la Padova-Vicenza. Nel 1848 in Toscana viene inaugurata la Firenze-Prato e nello stesso anno nel Piemonte la Torino-Moncalieri.
Come si vede, la ferrovia arriva nel resto d’Italia dopo la Napoli-Portici. Uno studio del Cavour del 1846, metteva in evidenza l’importanza della rete ferroviaria per lo sviluppo dell’Italia unita. La costruzione della rete ferroviaria meridionale era stata presentata al Ministro delle due Sicilie, Nicola Santangeli, e dall’ingegnere Baiard de la Vingirie. La celebrazione dell’inaugurazione, fu seguita direttamente dal sovrano Ferdinando II, con grande solennità, infatti le carrozze attaccate alla vettura principale, con il re e la sua famiglia, erano composte da 48 invitati, 60 ufficiali di armata di S.M., 30 soldati di fanteria, 30 di artiglieria e 60 marinai dei nostri reali legni, mentre nell’ultima carrozza era ospitata la musica della Guardia Reale. Non vogliamo dimenticare con quale grida di gioia i cittadini accoglievano il re mentre attraversava quei pochi chilometri dove, nel punto preciso, i preti celebravano la santa messa, per festeggiare l’inaugurazione di quella strada ferrata. L’acclamazione dei napoletani in quella circostanza è ricca di folclore, tutte le ville che venivano attraversate da quel tratto di strada, erano colme di dame e di visitatori vestiti a festa. Si racconta che la signora Cottrau, figlia di Felice Cerillo, capo ripartizione del ministero dell’Interno, fosse gravida di un bambino e nel viaggio fu colta dalle doglie e non appena a casa, partorì un bambino, che divenne un esperto di ferrovie. Tutto il lavoro della costruzione non ha superato un anno di tempo, utilizzando materiale di primordine: le locomotive sono state acquistate in Inghilterra mentre i vagoni provenivano dagli stabilimenti di Pietrarsa, industria del meridione.
Sarebbe interessante continuare con la descrizione particolareggiata di Michele Vocino sugli aspetti tecnici della strada ferrata, sugli angoli di inclinazione delle curve o sui pendii più o meno scoscesi, sui costi dei biglietti molto bassi, sia per il trasporto delle persone che degli animali, come per le derrate alimentari, comunque tenuto conto del valore della moneta di allora con la nostra Lira, conclude il Vocino, il costo appare molto più basso. Certo, fu l’occasione per attori comici di elaborare alcune scenette da teatro, da portare in scena nel meraviglioso “San Carlo”, quale quella scritta dal comico Altavilla “La ridicola partenza di Don Pancrazio sul vapore”, ebbe molto successo a teatro e non ultima l’inaugurazione del prolungamento della strada ferrata Napoli-Portici: “Na futa a Castellammare per la strada di fierro”, che fu un altro grande successo teatrale.
Certo le ferrovie del Regno delle due Sicilie non furono molte perché non superavano quelle degli altri Stati Italiani, ma nessuno può disconoscere che furono le migliori.
Lo sviluppo fu lento e solo nel 1843 fu aperta al pubblico la Napoli-Caserta e nel 1845 il prolungamento fino a Capua dove per l’occasione fu coniata una moneta con l’effige di re Ferdinando inserito nel motto Ferdinandus II Sicilie, rex Previdentiss; la Sicilia era ancora sprovvista di ferrovie.
Comunque tutte queste iniziative, solo per evitare di piangerci addosso ed evitare che gli incolti nordisti continuassero a dire in ogni occasione di dibattiti televisivi, che sono stati loro a mantenerci con tanti sacrifici e ora stufi chiedono l’autonomia. Certo a considerare il disordine totale in cui versava il Regno delle due Sicilie nel 1860, (a proposito di corbellerie) l’arrivo dei piemontesi, secondo i liberatori, fu accolto con manifestazione di gioia perciò i briganti antropologicamente esistenti nel meridione, dovevano continuare a rubare e allora hanno ragione i vari Lombroso a inventarsi il museo di Torino, per qualificare i briganti, e gli oppositori a sorridere delle canzonette. Noi più modestamente vogliamo solamente mettere in evidenza che le eccellenze di cui oggi si vantano, appartenevano al mezzogiorno dell’Italia. Oggi, vorremmo evitare che gli storici prezzolati, continuassero a scrivere le storia ipocritamente, senza sapere che parlano di storiografia, scritta dai vincitori.
Come spiega questo signore la legge Pica? E i massacri compiuti se non per interessi dei ladri nordisti? E perché tutte le imprese del sud spariscono e si sviluppano al nord?
Aristotele parlava di epistemi storici, mentre i nostri cultori si limitano a scrivere la storia nell’ipocrisia assoluta, senza considerare nessuna dignità dell’uomo e nessun rispetto antropologico della personalità di una nazione. Convincendo a dimenticare la storia oggettiva, pur di non dispiacere i nostri colonizzatori, che non hanno il coraggio di chiedere scusa per tutto quello che i fenotipi nordisti hanno saputo fare.
A noi meridionali è stata negata questa possibilità di chiarimento della nostra storia perché ancora sono secretati (forse consultabili oggi) i documenti ufficiali della storia dell’unità d’Italia a partire dal 1860, dove i più grandi storici Italiani, quale Indro Montanelli, si preoccupa a tramandare ai posteri, non un approfondimento sulla lite istituzionale di Garibaldi con Camillo conte di Cavour, ma si preoccupa invece di portare a conoscenza dei posteri se il conte in punta di morte si fosse convertito al cristianesimo, per non dispiacere il Papa. Cavour e i posteri siamo rimasti nel buio profondo perché il prete, nel segreto della confessione, non ha potuto rivelare il mistero. Sulla questione meridionale, asserisce che il governo in carica stava lottando contro i briganti e ci elenca alcuni nomi di briganti e non di partigiani che lottavano per la indipendenza della loro nazione. L’unico storico meridionale che chiama i briganti meridionali partigiane è Antonino Ciano nel suo testo “I Savoia e il massacro del sud”.
Noi uomini del mezzogiorno, indottrinati dai Savoia, conosciamo il comportamento dei briganti contro i Savoia, ufficialmente salvatori del meridione: Questa la storia dei nostri salvatori che si sono appropriati di questo titolo contro la volontà dei popoli. Secondo l’insegnamento dei Savoia, i nostri eroi restano briganti, mentre i colonizzatori dobbiamo chiamarli liberatori. Da oltre 155 anni ci propinano idee contraddittorie questi governanti di una Italia, mai unificata veramente, ma sottomessa con la forza delle armi e successivamente in maniera psicologica degna di ammirazione, in quanto il nero ci è stato presentato come bianco, da noi accettato senza discussione.
Siamo, infatti, inetti e incapaci, poveri senza possibilità di riscatto alcuno. E’ il progresso tecnologico dobbiamo accettarlo solo per lo sviluppo del settentrione, perché il popolo del nord, è stato eletto da Dio e il nostro mutismo viene pedissequamente sottoscritto dalla nostra cultura ipocrita e prezzolata.
Questa ipocrisia viene dimostrata ogni giorno dagli uomini del sud, quando giustificano il loro modo di dire attraverso le scuse più banali: è passato tanto tempo, che fa dichiariamo guerra ai piemontesi?.la colonizzazione è finita, i Governi lavorano per l’unità della nazione Italia, tutte domande che l’ipocrisia e gli interessi personali giustificano amorevolmente.
Noi dobbiamo tacere per diversi motivi, fondamentalmente per non accennare alla questione meridionale, perché i nostri padroni l’hanno cancellata dai libri di storia e perciò inesistente. Eppure, noi Siciliani, dovremmo ricordarci delle nostre eccellenze che il re Borbone costruì a Messina dopo la peste del 1743. Ecco, di seguito una lista ordinata per anno:
-1752 Prima Banca Commerciale privata in Italia:
-1801 Primo edificio pubblico (palazzata)più lungo al mondo:
-1832 Primo acquario pubblico al mondo:
-1834 Prima catena meccanica di trasmissione in Italia: .
-1835 Prima preparazione pura di acido citrico al mondo:
-1836 Prima vettura a vapore per strade carrabile (autovetture) in Italia:
-1846 Prima cura cataratta incipiente al mondo:
-1851 Primo smacchiatore per fibre tessili al mondo:
-1860 Prima pila al cloruro di sodio al mondo.
Dopo il terremoto di Messina del 1908 nessuno si preoccupò di dare una mano ai messinesi e le ultime baracche sono stato tolte 100 anni dopo.
Prima del 1860, noi meridionali, potevamo vantare alcuni primati europei e mondiali mentre subito dopo l’invasione dei Piemontesi abbiamo saputo primeggiare per fame, mafia e lassismo.
Qualche scienziato moderno, non dico meridionale, ha sicuramente trovato la giustificazione a questo disastro meridionale, giustificato dai nostri uomini di cultura.
Messina, al tempo del Vicerè Eustachio Duca di Laviefuille (1751 1754) , ottenne una ricca dote di concessioni e impianti che permisero alla città di Messina di competere con le più ricche capitali europee.
Fu riqualificato il territorio da tutti i mali provocati dalla peste, verso la zona del porto e presso il teatro marittimo, centro utile al Regno delle due Sicilie.
Il vicerè, per volontà del Sovrano, ottenne una serie di privilegi che mutarono completamente l’aspetto di Messina devastata dalla peste. La costituzione di una compagnia di bandiera e una banca commerciale, permisero alla città di competere con la compagnia Olandese delle Indie. Furono concesse 10 anni di franchigia dalle tasse a tutti i cittadini che alla data dell’1/12/1751 fossero rientrati nella città, Messina fino al 1766 dominava in tutto il mondo per il suo commercio e per le infrastrutture ostruite dal vicerè e volute dal sovrano Borbonico.
In nessun documento dei ricercatori della storia oggettiva, si rileva un comportamento ostile ai sovrani Borbonici che regnarono nel Regno delle due Sicilie, si riscontrano, invece, manifestazioni di affetto nei confronti dei Sovrani Borbonici, scusate la ripetizione.
Nel’ottobre 1839 si inaugura la linea ferrata Napoli-Portici costruita dalla società francese Bayard. Vent’anni dopo nel poverissimo regno di Sardegna la rete ferroviaria è lunga 850 km, nel derelitto Granducato di Toscana 257, nell’infelice Lombardo-Veneto 522, negli arretrati Stati Pontifici 101. Il regno borbonico di chilometri di ferrovie ne ha 126, tutti in Campania. Nelle altre regioni, zero. In Sicilia non solo non c’è un metro di traversine (eppure un progetto a Ferdinando II era stata presentato nel 1845; l’ho documentato proprio io nel mio ultimo libro) ma 182 comuni non dispongono di strade carrozzabili e a Terranova per caricare lo zolfo sulle navi bisogna portarlo a bordo con le barche perché le imbarcazioni di medio tonnellaggio non possono attraccare. Però gli scaricatori lavorano sorridenti perché pensano al piccolo Alfredo Cottrau.
Quali sono poi le imprese del sud che spariscono per svilupparsi al nord non si sa. I cotonifici svizzeri non solo non spariscono ma riprendono nel giro di pochi anni a macinare utili. Pietrarsa, come ho scritto innumerevoli volte, non sparisce che nel 1975. E non faccio elenchi per non annoiare i lettori del “Quotidiano”.
I documenti della storia dell’Unità d’Italia non sono stati secretati (ma chi ha diffuso questa stupidaggine?), visto che su di essi si fondano migliaia di volumi scritti da storici di tutto il mondo, Italia meridionale compresa.
Quanto alle manifestazioni entusiastiche dei sudditi nei confronti della dinastia borbonica, Maganuco dimentica che i siciliani (Gela è in Sicilia o sbaglio io?) contro i Borbone scatenarono la rivoluzione del 1820, quella del 1848, innumerevoli tentativi di rivolta e infine la rivoluzione che cominciò nell’autunno 1859 e permise alla spedizione garibaldina di dare la spallata finale a uno stato che stava già per implodere.
Per rispondere a tutte le altre “fantasie” dell’articolo servirebbe un intervento lunghissimo. Se si pone una questione per volta, discutere è possibile, altrimenti no.
Infine Maganuco faccia la cortesia di indicare per nome gli storici “prezzolati” specificando se possibile da chi. Altrimenti questo tipo di insulti lascia una sensazione assai sgradevole.
La legge Pica riprende, attuandone alcuni aspetti, la legislazione borbonica contro il brigantaggio.
Una domanda prima di partire per le ferie: visto che il titolo originale di questa rubrica è “La questione meridionale a Gela” si riuscirà una volta a parlare di “Terranova” – fino ad ora qualche cenno l’ho fatto soltanto io – e non delle fiere di Bari, delle ferrovie di Portici, dell’olio pugliese?