Gela. Una lungo e appassionato commento quello che leggerete qui di seguito e che porta la firma del Procuratore Lucia Lotti.
Un commento che nasce dal cuore di chi vive e lavora a Gela da qualche tempo e che ha imparato a conoscere la Città del Golfo e tutto ciò che le appartiene. Una replica al reportage del settimanale Espresso che ha lasciato tutti con l’amaro in bocca e che anche il Procuratore Lotti ha voluto commentare in questa lunga lettera inviata alla stampa e che pubblichiamo interamente:
“Non rientra tra i compiti della Procura della Repubblica commentare articoli di stampa, a maggior ragione se riguardano dati o fatti di interesse per indagini o procedimenti in corso.
Tuttavia, poiché il mancato commento ha suscitato stupore, è opportuno sgombrare il campo da possibili equivoci, per quanto il mio ruolo e lo stato delle indagini possano consentirlo.
Temi così gravi e complessi come quelli affrontati nell’articolo impongono al magistrato lunghi e faticosi percorsi di analisi e ricostruzione e un notevole impegno di tempo, energie, risorse, determinazione. Tanto più quando sono in gioco beni giuridici primari e si toccano destini di intere collettività.
Nella modestia di un ufficio di periferia – cinque sostituti, per tre anni con scoperture tra il 40% e l’80% e per diversi mesi rappresentato dalla sola sottoscritta – questo è ciò che si cerca di fare e di portare a buon fine: indagini approfondite e rigorose ed esercizio dell’azione penale con prove che non temano smentite e che, dunque, si traduca in tutela effettiva di quei beni giuridici.
Non so se il giornalista sia venuto a Gela per preparare il reportage, forse però una permanenza in città adeguata al livello delle sue problematiche avrebbe consentito di arricchire il quadro delle informazioni, ad esempio scoprendo che buona parte dei dati pubblicati, in particolare quelli sulle malformazioni, sono frutto di anni di faticoso e impervio lavoro proprio di questa Procura della Repubblica e dei suoi consulenti. Nulla vi era quando il lavoro è cominciato, nessun registro, nessun dato, nessuna testimonianza. E ora è proprio questo il lavoro oggetto del vaglio da parte di un collegio di periti per stabilire la riconducibilità dei casi individuati all’alterazione delle matrici ambientali derivante dall’esercizio delle attività produttive insediate dagli anni sessanta nel perimetro del petrolchimico.
Ad ancora si poteva apprendere che sull’impianto clorosoda e sugli effetti delle lavorazioni è stato raccolto, sempre da questo ufficio, con un esercito di ben due unità di polizia giudiziaria, un materiale imponente, che vede oggi un incidente probatorio in via di conclusione sulle malattie professionali contratte e sulla loro origine, con 17 indagati e 117 persone offese.
Analogamente, sempre con il folto esercito, si è proceduto e si sta procedendo alla ricostruzione della vita lavorativa e delle patologie di decine di ex-dipendenti della raffineria e di numerose ditte dell’indotto potenzialmente derivanti dalla inalazione di fibre di amianto.
E non sfuggono neppure, in alcun momento, i dati epidemiologici, dove possono costituire traccia o innesco o componente di un quadro di possibile e concreto rilievo penale.
Si sarebbe potuto documentare, inoltre, come ad ogni processo in aula – che già di per sé non è una esercitazione accademica: si tratta di incendi, sversamenti, omesse bonifiche, infortuni sul lavoro, danneggiamenti all’habitat, violazioni delle norme sui rifiuti etc. – abbiano corrisposto precedenti interventi dell’ufficio inquirente mediante sequestri, con conseguenti bonifiche di diverse aree pesantemente inquinate.
Per render chiaro, poi, come la doverosa azione dell’organo inquirente non risenta metodologicamente di visioni parcellizzate o episodiche, si poteva apprendere che a breve vi saranno i risultati di un altro incidente probatorio, appunto chiesto dalla Procura, con cui si mira a stabilire lo stato delle falde acquifere sottostanti all’intero parco serbatoi della raffineria ipotizzando l’inquinamento perdurante nonostante adeguamenti effettuati nel corso del tempo.
Ed ancora sono stati acquisiti ed incrociati, per il vaglio dibattimentale, tutti i dati direttamente o indirettamente riconducibili alle emissioni in atmosfera provenienti dalla centrale termoelettrica, dalle torce di raffineria, da altri camini, dalla propagazione delle polveri di pet-coke, delle ricadute nell’ambiente circostante ed al vaglio sono i possibili effetti patogeni sull’ambiente e sull’uomo. Materiale questo messo peraltro a disposizione degli organi pubblici e del Ministero dell’Ambiente per le valutazioni di competenza.
E’ dovrebbe mancare, poi, la consapevolezza che il risanamento del territorio imporrebbe sforzi di portata ben più ampia?
Altro vi sarebbe da aggiungere, ma non è ora possibile.
Non è dunque per sottovalutare quanto riportato nel testo dell’articolo che l’attenzione critica si è appuntata sull’immagine della devastata spiaggia di Gela. Immagine che, senza data o indicazione di eventi, reca in calce la frase lapidaria: “LA SPIAGGIA DI GELA, SULLO SFONDO L’IMPIANTO DELL’ENI”.
Ora apprendiamo che è una foto del novembre 2010 (verosimilmente dopo una mareggiata) e che “la sabbia è nera non perché c’è petrolio ma perché la sabbia bagnata impressa su pellicola viene nera (ma no?)”.
Io ed i colleghi francamente non ce ne eravamo accorti e neppure la polizia giudiziaria che lavora con noi e abbiamo pensato ad un grave sversamento in mare di idrocarburi. Così ci siamo domandati: quando è avvenuto questo fatto? Possibile che non ce ne siamo accorti? Siamo forse davvero disattenti di fronte a simili disastri?
Credo che, come noi, tutti coloro che, in Italia e nel mondo, hanno aperto il giornale, abbiano più o meno pensato la stessa cosa, che quella è – oggi – la spiaggia di Gela: petrolio, catrame, rifiuti. In piena sintonia con l’evocazione di un luogo senza appello, senza futuro, abbandonato a se stesso, pattumiera della mente e della storia.
Il fatto è che, in questo luogo che sembra non aver diritto ad alcun secondo tempo, le persone non sono solo componenti di calcoli statistici. Noi viviamo qui, i problemi, i drammi, la complessità di ogni questione li tocchiamo con mano e, doverosamente, in sordina e senza lamentele si lavora, ciascuno con i propri strumenti e le proprie forze, cercando di dare risposte a chi, per legge, deve averle e di contribuire anche, perché no, a costruire scenari diversi da quelli prodotti dai tanti disastri della storia che qui si sono prodotti.
Nel mentre si sta cercando di lavorare e costruire e forse anche per questa ragione, accade che la spiaggia di Gela, oggettivamente, non sia quella della fotografia o non sia quella che si vuol far credere che sia.
Il tempo passa e a volte non passa invano.
Se l’intento, senz’altro lodevole, era di far si che l’attenzione per Gela fosse maggiore (certo che merita più attenzione!), mi chiedo qual è il beneficio, quale il valore aggiunto che questo territorio ricava dall’essere raffigurato nel modo in cui è stato fatto. Sinceramente non lo comprendo e ho ritenuto di sottolinearne l’intima ingiustizia. Forse è per abito mentale: la divergenza tra la realtà e la sua rappresentazione, nel mio lavoro, è fatale, fa perdere i processi. Ed anche Gela, con questa divergenza, ha perduto qualcosa, qualcosa che l’autore dell’articolo forse non conosce”.