di Rosario Di Natale
Gela. Teatro impegnato la sera di giovedì scorso all’Eschilo. Un atto unico scritto e diretto da Maurizio Nicastro, nota conoscenza della nostra città, che si è ancora una volta dimostrato abile nella regia e di cui mi pare quasi superfluo tessere le lodi e sottolineare la bravura. Si è trattato della messa in scena di un dramma, della storia autobiografica dell’autore – Titolo: OBLIVION – Briciole di memoria – che, purtroppo, anche tante altre famiglie conoscono e drammaticamente vivono. Parliamo della malattia di questo secolo, l’Alzheimer, il morbo capace di sprofondare una persona nell’abisso di un’esistenza votata inesorabilmente al Nulla. Sul lavoro teatrale di Maurizio Nicastro torreggiava infatti una citazione di Elie Wiesel: “L’Alzheimer è come quando da un libro strappiamo una pagina, poi un’altra e un’altra ancora. Finché non ci sono più pagine e resta soltanto la copertina”. E’ la storia di un musicista di violino che, ormai in età avanzata, si trova segregato in casa a causa di una malattia fortemente invalidante, oggi piuttosto conosciuta per via della sua sempre più preoccupante diffusione: appunto l’Alzheimer. L’uomo, i cui gesti e movimenti sono appesantiti dagli anni e dalla malattia, viene accudito dalla figlia Daria, la quale è costretta ad uno stress fisico ed motivo al limite del tollerabile, senza peraltro che le venga data la possibilità di sosta alcuna. La relazione padre-figlia, impossibile prima della malattia per l’eterno girovagare del padre per il mondo col suo violino, rinasce mediante un linguaggio che non è più quello di tutti i giorni, fatto di parole, di fatti contestati o rinfacciati, di ricordi coltivati o vissuti con fastidio o sofferenza. E’, invece, il linguaggio del gesto, degli sguardi, del delicato e amorevole contatto fisico. Un rapporto che la figlia vive tra momenti di comprensibile sofferenza e altri infarciti d’amore e di rimpianti per ciò che poteva essere e non è stato. Dopo tempo la figlia incontra il padre diventato un involucro pieno di frasi non dette, di momenti perduti, di baci e abbracci mancati, in cui avviene l’inversione dei ruoli: la figlia che diventa madre del padre, quest’ultimo divenuto niente di più di un infante da accudire. Uno strepitoso Alberto Lo Scalzo, impressionante nella sua immobilità scultorea, che a tratti mi ha fatto pensare ad un convitato di pietra, ha trovato una partner artistica di pari valore in Maria Giannone di cui ho già in passato avuto modo di elogiare la bravura e il talento. Degno terzo protagonista è stato Stefano Rizzo, ottimamente e con disinvoltura calatosi nella parte del medico.
E qui la storia, oltre che farsi arte, mette a fuoco un punto cruciale nel trattamento del rapporto malato- scienza. Mentre la scienza, impersonata dal medico, si dichiara in un primo momento scettico e impotente nel penetrare l’involucro in cui è incapsulato l’ammalato di Alzheimer, Daria, la figlia, sa interpretare e tradurre i sentimenti del padre, suscitando infine la meraviglia anche del medico. Daria è consapevole del fatto che ogni giorno che passa una pagina del libro della vita del padre verrà strappata e per sempre perduta, ma appunto per questo intende cogliere sino all’ultimo istante i contenuti e i sentimenti delle pagine ancora attaccate al libro. In questo, Maria Giannone ha dato prova di grande acume psicologico. Il dramma, di cui è impossibile descrivere la bellezza e la profondità dei sentimenti che scaturiscono dai dialoghi e dai monologhi, è stato brillantemente introdotto dalla Dott.ssa Elisabetta Rita Pasqualetto, psicologa e Psichiatra, mentre Tina Accardo dirigeva sapientemente la scena e l’AGOSTA Service prestava puntualmente e con perizia il suo servizio audio/luci. Da Maurizio Nicastro, oltre alla solita bravura di cui facevo cenno all’inizio, è lecito aspettarsi altre significative sorprese artistiche. Un convinto e corale applauso ha fatto da degno epilogo alla serata.