Prologo sul campo di battaglia
In “Guerra e pace”, verso la fine di I, II, 16, c’è un momento interessante che precede immediatamente le prime cannonate della Battaglia di Schöngrabern (16 novembre 1805), una scaramuccia o poco più tra le truppe napoleoniche al comando di Murat e il reparto guidato da Bagration dell’esercito russo di Kutuzov in fuga per l’Austria; questa piccola battaglia, che è la prima azione militare descritta dettagliatamente da Tolstoj nel suo grande romanzo, precedette di tre settimane la decisiva Battaglia di Austerlitz (2 dicembre 1805), che vide il trionfo di Bonaparte sulla cosiddetta Terza coalizione.
Il principe Andrej Bolkonskij, personaggio di invenzione e tra i protagonisti del romanzo, è al seguito di Bagration e, mentre riflette sulla strategia e sui posizionamenti del reparto appoggiato a uno dei cannoni della batteria del capitano Tušin, sente alcune voci provenire dalla vicina baracca degli ufficiali. All’inizio Andrej non capisce di cosa si stia parlando nella baracca, ma poi si rende contro che gli ufficiali, tra una bevuta e l’altra e nell’imminenza della battaglia, stanno parlando della paura di morire e della eventuale vita dopo la morte. A colpirlo particolarmente è “la gradevole voce che filosofeggiava”, che di lì a poco scopre essere quella dello stesso Tušin, il quale, al termine della battaglia, accusato da Bagration di aver abbandonato un cannone, verrà scagionato proprio da Andrej, che deporrà in suo favore sottolineandone l’eroica resistenza all’assalto dei francesi, che erano in netta superiorità numerica (cfr. le ultime pagine di I, II, 21).
Immagine manifesta e immagine scientifica del mondo
Ebbene, tra le frasi smozzicate sentite da Andrej ce n’è una su cui vale la pena soffermarsi: «Si ha un bel dire che l’anima andrà in cielo… ma noi sappiamo che il cielo non esiste, esiste solo l’atmosfera» (cito dalla nuova traduzione Einaudi, uscita il 4 dicembre scorso). Questa frase esprime perfettamente il contrasto tra le credenze del senso comune e quello che sappiamo, o dovremmo sapere, sulla base delle conoscenze scientifiche più consolidate. Si tratta di due vere e proprie immagini del mondo che è bene imparare a conoscere e tener distinte. Il filosofo americano Wilfrid Sellars (1912-1989), in un suo saggio del 1962, propose di chiamare immagine manifesta (“manifest image”) la prima e immagine scientifica (“scientific image”) la seconda. Il cielo, per esempio, con tutto il carico di significato anche religioso che si porta dietro da millenni, è un tipico elemento della nostra immagine manifesta condivisa del mondo, insieme ai colori, ai corpi solidi, ai sapori, agli odori, ai suoni, ecc. La sua riduzione a fenomeno locale generato dal modo particolare in cui noi percepiamo la rifrazione e la diffusione della luce solare nell’atmosfera terrestre, invece, è un tipico elemento che fa parte dell’immagine scientifica del mondo, popolata da molecole, atomi, particelle subatomiche, fotoni, frequenze elettromagnetiche e così via, spesso lontanissima dal senso comune e proprio per questo assai poco nota. Rispetto a Tolstoj, poi, noi oggi abbiamo il privilegio di poter vedere direttamente o indirettamente come appare il “cielo” dal suolo lunare e da quello marziano, e siamo in grado di apprezzare in tutta la sua forza la peculiare natura illusoria del cielo visto dal suolo terrestre. Da docente a contatto con adolescenti le cui menti sono ancora necessariamente dominate dall’immagine manifesta, amo particolarmente lo spettacolo dei loro occhi smarriti quando “rivelo” loro la “non esistenza” del cielo, avviando così una discussione in classe che per loro si trasforma in un’esperienza viva e inquietante di dissonanza cognitiva.
È importante osservare che con ciò non si sta dicendo che l’immagine manifesta è falsa mentre quella scientifica è vera. Tutt’altro. L’immagine manifesta è un prodotto consolidato della nostra evoluzione e svolge un ruolo adattativo fondamentale, mentre quella scientifica è emersa in tempi relativamente recentissimi e richiede, per essere compresa e accettata, degli sforzi cognitivi notevoli, non di rado persino innaturali. Si pensi a quanto sia importante saper riconoscere l’immagine manifesta di un possibile predatore o quella di un frutto maturo. Il passo di Tolstoj, peraltro, sintetizza bene il fatto che noi, come vanno dimostrando negli ultimi anni le scienze cognitive e la psicologia evoluzionistica, nasciamo cosmologi geocentristi pre-copernicani e psicologi dualisti cartesiani, e solo dopo molti anni di studio possiamo convincerci dell’eliocentrismo e del fatto che la nostra mente (o “anima”) sia semplicemente il modo in cui sperimentiamo in prima persona l’attività del nostro cervello.
Secondo il filosofo Daniel Dennett, che negli ultimi anni ha riproposto insistentemente la distinzione di Sellars, il compito forse più importante della filosofia è oggi quello di indagare il nesso tra le due immagini, visto che gli scienziati per forza di cose si dimostrano i meno adatti a farlo. È quanto egli sosteneva esplicitamente, per esempio, nel suo libro del 2013 intitolato “Strumenti per pensare”, il cui capitolo 16 è dedicato tutto alla distinzione di Sellars, definita sin dall’inizio «uno strumento per pensare che offre una prospettiva preziosa su un numero tale di questioni che dovrebbe far parte dell’equipaggiamento di chiunque e tuttavia non è ancora molto diffuso al di fuori della filosofia, dove ha avuto origine» (tr. it. Raffaello Cortina 2014, p. 73). Tornando sull’argomento nel suo ultimo libro, “Dai batteri a Bach. Come evolve la mente” (2017), Dennett ha ribadito ancora una volta l’importanza della distinzione di Sellars: «le espressioni “immagine manifesta” e “immagine scientifica” non sono ancora migrate dalla filosofia in altri settori, ma io faccio del mio meglio per esportarle, poiché da tempo mi sembra di non conoscere modo migliore per chiarire la relazione tra il “nostro” mondo e il mondo della scienza» (tr. it. Raffaello Cortina 2018, p. 67).
Abissi di saggezza in una manciata di parole
A parziale correzione della tesi di Dennett, possiamo citare il caso in cui uno scienziato famosissimo, scomparso il 14 marzo scorso, ci mostra in maniera particolarmente efficace il punto di rottura tra l’immagine manifesta e quella scientifica di cui abbiamo parlato, illuminando anche le nervature biologico-evolutive che conducono dall’una all’altra. Nel centrale quinto capitolo de “Il grande disegno. Perché non serve Dio per spiegare l’universo” (2010, con L. Mlodinow, tr. it. Mondadori 2011), intitolato “La teoria del tutto”, Stephen Hawking comincia con una carrellata storica sulle principali leggi della natura e, mentre sta illustrando l’importanza delle equazioni di Maxwell che descrivono i campi elettromagnetici, fa una piccola, fulminante osservazione (con annessa chiusura ironica), apparentemente buttata lì per caso. E invece, così mi sembra, si tratta di una summa di filosofia della natura, un pozzo profondo di conoscenza che coinvolge astronomia, fisica e biologia in un passo tanto breve e chiaro quanto decisivo per una visione scientifica delle cose, perché è come se chiudesse i conti con il modo “manifesto” di vedere il mondo: intendo il modo che chiamerei aristotelico, cioè finalistico e ingenuamente geo-antropocentrico, così ben fondato sulle apparenze del quotidiano da essere entrato nel senso comune come un baconiano “idolo della tribù” e da risultare per ciò ancora tanto difficile da rimuovere dalle menti di miliardi di esseri umani. Ecco il passo, in cui peraltro non è difficile cogliere il nesso profondo con quello di Tolstoj da cui siamo partiti: «Il Sole irraggia a tutte le lunghezze d’onda, ma la sua radiazione ha un massimo di intensità alle lunghezze d’onda che ci sono visibili. Probabilmente non è un caso che le lunghezze d’onda che possiamo vedere ad occhio nudo siano quelle a cui il Sole irraggia con maggiore intensità: è verosimile che i nostri occhi si siano evoluti con la capacità di rilevare la radiazione elettromagnetica in quella gamma proprio perché è la gamma presente in misura più abbondante. Se mai entreremo in contatto con esseri di altri pianeti, questi probabilmente avranno la capacità di “vedere” la radiazione alle lunghezze d’onda, quali che siano, che il loro sole emette con maggiore intensità, modulate da fattori quali le proprietà filtranti della polvere e dei gas presenti nell’atmosfera del loro pianeta. Così alieni evolutisi in presenza di raggi X potrebbero far carriera nel campo della sicurezza aeroportuale» (pp. 87-88).
Quante follie umane di insensato protagonismo religioso e filosofico spazzano via le implicazioni per noi del quadro cosmologico e biologico racchiuso in tali osservazioni? Teniamo presente, però, che l’essere spodestati dalla posizione privilegiata in un cielo di cartone ha come contropartita l’onore immenso di essere davvero gli unici a sapere che la nostra esistenza (e non solo la nostra) non è necessaria e che la nostra costituzione è il risultato di una sintonizzazione alla cieca con i vincoli ambientali che abbiamo trovato. L’illusione di essere stati voluti da un disegno intelligente e superiore, infatti, ci fa sì guadagnare in consolazione ma soprattutto ci fa perdere in valore relativo nel gran mare dell’Essere, perché, tanto per dire, un Dio è per definizione sempre e incomparabilmente più importante di noi. Si comprende allora che, se quella scientifica è una retta visione delle cose, ciò che essa ci fa perdere in consolazione illusoria ce lo restituisce con un tasso di interesse altissimo in termini di rivalutazione del nostro posto nell’universo, che risulta essere davvero unico, perché siamo il frutto di una improbabilità estrema e per giunta siamo gli unici ad essere coscienti di questo fatto ed in grado di fornircene una rappresentazione razionale e verosimile. È vero, siamo contingenti e non abbiamo nessuno che da lassù, cioè dal cielo illusorio, ci ami, e tuttavia, per dirla con l’ironico e pensoso Calvino delle “Cosmicomiche”, e recuperando paradossalmente una nuova forma di antropocentrismo, più smagata e matura, siamo l’occasione forse irripetibile che l’universo ha per organizzare alcune informazioni su se stesso e conservarne per un po’ di tempo la memoria.