Gela. Uscito il 25 ottobre scorso presso Bollati Boringhieri, il pamphlet politico-filosofico dal forte timbro speculativo di Donatella Di Cesare, intitolato “Sulla vocazione politica della filosofia”, non può lasciare indifferente il lettore; al contrario, lo chiama in causa in prima persona e lo invita a domandarsi da che parte sta, a registrare la propria posizione dentro la (presunta) notte del mondo dominato dal neocapitalismo ed eventualmente a reagire. Difendendo infatti con grande pathos teoretico ed esistenziale una posizione precisa e netta, la Di Cesare non è tenera con chi ha scelto magari di collocarsi altrove. Poiché Eraclito ha dichiarato che chi si sottrae alla ragione del mondo che ci accomuna nell’esercizio pubblico, vigile, politico e alla luce del giorno dell’intelligenza è un dormiente preda dei propri sogni privati, ovvero del proprio “particulare”, costui è anche etimologicamente un idiota, dal momento che «“idiótes” deriva da “ídios”, proprio», una parola che «in greco rinvia alla proprietà». Come si può già intuire, nel dispositivo retorico di questo testo l’archeologia linguistica in stile heideggeriano, coadiuvata da un periodare spesso involuto, metaforico e oracolare, prende non di rado il posto dell’argomentazione razionale e circostanziata.
La tesi di fondo sostenuta dalla Di Cesare, tolte talune enunciazioni rigorosamente oscure tipiche dello stile cosiddetto “continentale” degli epigoni di Heidegger, è insieme semplice e nobile. La filosofia deve risvegliarsi e tornare nella pòlis, memore delle sconfitte che ha collezionato nei suoi tentativi passati di sporcarsi le mani con la politica e comunque consapevole di essere depositaria di un destino che la vede già da sempre distaccata, fuori luogo, “atopica”. Incompatibile con il dominio totalitario del presente politico-economico che si spaccia per natura intrascendibile, la filosofia dovrà anarchicamente, cioè senza alcuna velleità di dominio, tornare ad opporre all’“immanenza satura del globo” generata dalla “notte del capitale” l’intrinseca apertura allo stupore carico di speranza e al non-ancora del possibile utopico e ucronico che caratterizza il suo domandare inesausto e inevaso sin dalle origini.
La storia dell’amore difficile tra filosofia e politica è nota e la sua tragedia si consuma quasi subito. Lo scontro tra Talete e, potremmo dire, l’opinione pubblica di Mileto (si pensi all’aneddoto della servetta tracia riferito da Platone e all’aneddoto dei frantoi riferito da Aristotele) e la tensione tra Eraclito e i democratici di Efeso culminano nel martirio “legale” di Socrate, condannato a morte nell’Atene democratica uscita a pezzi dalla guerra del Peloponneso. Sconvolto da questo esito tragico dell’incontro della filosofia con la politica, Platone creerà lo schema futuro della loro difficile convivenza, con la prima che si autoesilia in città nel chiuso dell’Accademia, coltivando un sapere verticale refrattario alle contaminazioni con l’orizzontalità della prassi. Circa venticinque secoli dopo, quando con Heidegger la filosofia proverà a risvegliarsi estaticamente dentro un nuovo ordine politico, troverà il nazismo e precipiterà nell’errore più catastrofico della sua storia.
L’immagine della filosofia che viene difesa nel pamphlet è quella di un’avventura intellettuale-esistenziale che per sua natura è volta più al domandare radicale che alla soluzione di problemi. Mentre quest’ultima è demandata alla scienza, destinata a procedere in linea retta di cosa in cosa in un “sonno ontico”, la filosofia mette in questione non solo i presupposti infondati della scienza ma persino i propri presupposti, ri-flettendo, cioè reindirizzando il proprio cammino verso l’interiorità stessa del domandante, fino a sconquassarne l’esistenza («si può chiamare ri-flessione questa virata, un’inversione di rotta che risveglia dal sonno ontico»; e «quando si pensa», si legge molte pagine dopo, «ne va ogni volta della propria esistenza»). Tale radicalità del procedere filosofico può allora essere assunta per buona e messa alla prova nell’incontro-scontro con questo testo, dal momento che anch’esso è pieno di presupposti che chiedono solo di essere interrogati e messi in questione.
Eraclito chi?
Il secondo capitolo del libro è dedicato a Eraclito, riletto come colui che incita alla “veglia” della partecipazione politica e teorizza una sorta di proto-comunitarismo o “comunismo originario”. Secondo la Di Cesare, che in ciò segue una precisa tradizione interpretativa, tutto il pensiero di Eraclito è politico, e la sua filosofia della natura è trascurabile. Chi pensa il contrario, magari seguendo Aristotele, si condanna a una lettura “fuorviante e riduttiva” di un filosofo che, anziché un qualsiasi “indagatore del cosmo”, voleva essere il “severo guardiano della città”. In tale prospettiva interpretativa Eraclito inaugura una linea di pensiero che, passando soprattutto per Platone e Marx, arriva fino ad Heidegger e oltre, e costituisce il modello da seguire per recuperare oggi l’autentica vocazione politica della filosofia. Non importa naturalmente soffermarsi troppo sui tratti specifici del pensiero di questi punti di riferimento: quello che conta è il loro aver insistito sulla necessità di dedicarsi a una “filosofia del risveglio” nella pòlis (le prime due delle tre epigrafi del libro, tratte da Heidegger e Platone, insistono proprio sulla “veglia” politica affidata ai filosofi).
Per una curiosa coincidenza, però, a Eraclito era dedicato anche il secondo capitolo di uno dei classici più celebri e controversi della filosofia politica del Novecento, cioè “La società aperta e i suoi nemici” di Karl Popper, mai citato dalla Di Cesare nel suo pamphlet. Ora, escludendo che tale silenzio possa essere casuale, è difficile non pensare che esso abbia un significato preciso, dal momento che la ricostruzione storico-concettuale di Popper costituisce un’alternativa radicale a quella della Di Cesare, o, per così dire dire, una sorta di confutazione preventiva. È ben noto, infatti, che per Popper la linea Eraclito-Platone-Hegel-Marx-Heidegger è quella nera dei “falsi profeti” e dei teorici del totalitarismo, insomma dei nostalgici del tribalismo antidemocratico della “società chiusa”. Nell’interpretazione di Popper, Eraclito è soprattutto un sommo filosofo della natura, il quale però in politica, sulla base di una forma larvale di storicismo cosmico-storico agganciato all’intuizione di una «inesorabile e immutabile ‘legge del destino’» (p. 32 dell’ediz. Armando 1973), rimpiangeva, contro i rivolgimenti democratici in atto, il ritorno ai privilegi delle antiche aristocrazie tribali (da cui pare discendesse).
Non si tratta qui di stabilire quale delle due interpretazioni di Eraclito sia la più attendibile. Più interessante è osservare la distorsione provocata nella ricostruzione della Di Cesare dalla totale assenza di Popper. Quando lei deve denunciare il recente mesto rientro della filosofia in città con il capo cosparso di cenere e nelle vesti dimesse di “ancilla democratiae”, il suo bersaglio polemico è Hannah Arendt, accusata di aver predisposto un dispositivo di discorso, un vero e proprio “blocco concettuale”, che costringe la filosofia, dissoltisi gli incubi dei due totalitarismi (quello nazista e quello stalinista), ad appiattirsi sul liberalismo e a svolgere il compito “indecoroso” di democratizzare la democrazia e difendere un astratto umanitarismo dentro la cornice intrascendibile del neocapitalismo. Come si vede, la Di Cesare ha difficoltà ad uscire dall’ambito dell’universo heideggeriano e a prendere in considerazione linee di pensiero radicalmente diverse, come se il pensiero liberale non avesse una sua storia indipendente dalle eresie dell’heideggerismo. Senza voler nulla togliere al ruolo svolto da “Le origini del totalitarismo” della Arendt, uscito nel 1951, sarebbe arduo sostenere che un testo come “La società aperta e i suoi nemici”, uscito una mezza dozzina di anni prima, non abbia inciso in alcun modo sulla diffusione dell’ideologia liberaldemocratica (che per la Di Cesare è una vera iattura per la filosofia) nel mondo uscito dalla Seconda guerra mondiale e in marcia, soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino, verso la globalizzazione.
Scienza e filosofia.
A proposito della scienza e del suo rapporto con la filosofia, la Di Cesare procede tipicamente come chi oggi non ha più altro da aggiungere a quello che sul tema hanno detto Platone e Heidegger. L’essenziale è già stato definitivamente stabilito da loro e né i filosofi della scienza né tanto meno gli scienziati sono chiamati in causa per dire cosa ne pensano. Per quanto riguarda Heidegger, la tesi è ben nota: la scienza non pensa e la tecnica è il dispositivo (Gestell) cavalcato dal Capitale (il Male assoluto, perché lo ha detto Marx) per la sua parata trionfale nella “pòlis planetarizzata”. D’altra parte, come avrebbe chiarito per sempre Platone parlando dei matematici e dei geometri del suo tempo, «ogni scienza», afferma la Di Cesare quantificando universalmente un discorso riferito a pratiche di calcolo ben precise, «sviluppa la sua dimostrazione a partire da principi, concetti fondamentali, proposizioni prime, che non è tuttavia in grado di dimostrare con mezzi scientifici». Tutta l’epistemologia del mondo ricostruita in ambito platonico-heideggeriano è qui. Di conseguenza, il positivismo è “limitato e ottuso” e non a caso sono gli ottusi neopositivisti logici ad essere i più ostili alla metafisica. In questo punto la Di Cesare fa una cosa interessante e rivelatrice: come esempio di opera ostile alla metafisica evoca il «celebre (…) scritto polemico di Rudolf Carnap “Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio”», ma dimentica di aggiungere che in esso è contenuta una devastante critica alla prosa oscura e infarcita di enunciati privi di senso di Heidegger, il quale replicò allusivamente con una mirabile insinuazione politica di stampo complottista.
A proposito dei filosofi che prendono sul serio il concetto heideggeriano di Gestell, valga l’osservazione dell’ultimo Popper contenuta nella conferenza “Tecnologia ed etica” del 1992 (pubblicata in italiano dall’editore Rubbettino nel 2013): «La profondissima veduta che la tecnica sia “l’apparato” ovvero “l’impianto”, è stata recepita e ripetuta migliaia di volte con estatica reverenza dalla gran massa dei filosofi. La ricetta per crearsi un seguito di semi-intellettuali è semplice: basta intarsiare qua e là delle frasi incomprensibili con alcune banalità. Il lettore allora constata di aver già pensato per conto proprio qualcosa del genere, ed è fiero di comprendere un’opera così profonda».
Lessico esoterico versus lessico specialistico. Sul “non-senso profondamente significativo” (“deeply significant nonsense”) degli enunciati heideggeriani (ma il discorso riguardava anche certe proposizioni del “Tractatus” di Wittgenstein), con esplicito riferimento proprio al saggio di Carnap, Popper si era già soffermato nella nota 51 del capitolo XI e nella nota 87 del capitolo XII della “Società aperta”. Ebbene, per testare la validità di queste obiezioni “analitiche”, consideriamo due esempi tratti dal pamphlet della Di Cesare.
1) Nel capitolo intitolato “Poetica della chiarezza”, dopo aver precisato che con chiarezza non intende “la trasparenza, l’evidenza, la linearità”, dal momento che anche una metafora non lineare può aprire “un varco di profondità” e illuminarlo diffondendovi la propria luce, la filosofa attacca due simboli della modernità, i “codici specialistici delle scienze” e la “neolingua diffusa dai social media”, rei di aver determinato una vera e propria “fuga dalla parola”, impoverendo il linguaggio a tal punto da rendere difficile ormai l’incontro con testi filosofici dotati di “forza evocativa e poetica”. La biogenetica e la chimica molecolare, per esempio, avrebbero la colpa gravissima di usare espressioni come “calcolo tensoriale”, “convenzioni algebriche”, “numeri transfiniti” e “calibrature in nanosecondi”, di fronte alle quali i filosofi come la Di Cesare rimangono così sconcertati e disorientati da lanciare geremiadi sulla fine dei tempi al modo dei “venditori di Apocalisse” di cui parlava Umberto Eco nelle ultime pagine di “Apocalittici e integrati”. E loro? Cosa oppongono loro al lessico specialistico delle scienze e al piattume linguistico delle chat e dei blog? Per esempio questa illuminante spiegazione dell’errore politico di Heidegger, che la Di Cesare ci regala qualche pagina prima in un altro capitolo: «Per sintetizzare l’errore di Heidegger, si può parlare di una territorializzazione politica dell’atopia. Tanto più contraddittoria, se si considera che Heidegger è il filosofo della spaesatezza. Il rifugio della Foresta Nera è profondamente deterritorializzato. Eppure il luogo non è più indifferente. Nel denunciare il duplice rischio dell’età planetaria, cioè l’autoctonia ingenua e la mobilità tecnologica, Heidegger ha delineato una fenomenologia dell’abitare inteso come migrare; l’atopia non è fuori dal mondo, bensì è l’essere-al-mondo ben pensato. Di più: Heidegger ha eletto la filosofia a pratica riflessiva dell’atopia e con le sue anarchitetture ha squassato dal fondo la tradizione». Chi può dubitare che Heidegger abbia fatto qualcosa di profondamente significativo, nel senso di Popper?
2) Nello stesso capitolo dedicato alla poetica della chiarezza, la Di Cesare intende illustrare il profondo legame tra filosofia e poesia, malgrado l’espulsione dei poeti dalla pòlis decretata da Platone nella “Repubblica”. Il nesso tra poesia e politica, intanto, è stato rinsaldato per esempio da Dante, Coluccio Salutati e Vico, ma per capirlo non ci si deve basare sulla parola italiana, che rimanda alla “poìesis”, cioè alla produzione creativa che genera “decoro, ornamento, versi”. La chiave, come vogliono per esempio Hölderlin e Heidegger, sta nel verbo tedesco “Dichten”, ovvero “nella straordinaria complessità dei suoi significati”. In tale costellazione di senso, la poesia rimanda da un lato al “dictare”, e cioè al fatto che il poeta non produce alcunché dal nulla ma si dispone all’ascolto dialogico di ciò che gli viene dettato, e dall’altro al “condensare”, e cioè al fatto che le parole che arrivano al poeta “si addensano con difficoltà, si condensano nel tempo, si fanno largo in uno spazio che lentamente diradano e illuminano”. Tutto questo basta per giustificare il profondo legame “politico” tra filosofia e poesia, e la Di Cesare sintetizza il tutto in chiusura di capitolo con una bella frase poetico-filosofica senza senso ma senza alcun dubbio profondamente significativa (sempre nel senso di Popper): «Poeti e filosofi sopportano il lutto dell’assenza presentendo nell’oscurità della notte quel farsi giorno che albeggia».
Gli esperimenti mentali dell’etica.
Un momento che rivela plasticamente la selva di pregiudizi antiscientifici della Di Cesare è quando lei si scaglia a testa bassa contro gli esperimenti mentali, tra cui quello famosissimo del carrello ferroviario, di cui ultimamente si servono alcuni filosofi per illustrare i dilemmi etici. Il contesto è costituito dal modo in cui ella valuta l’irruzione di certi approcci scientifici nelle tradizionali discipline umanistiche. Queste ultime sarebbero «sempre più svilite, scalzate dalle scienze neurobiologiche, manipolate dalla simulazione cognitiva, ridotte al calcolo». Naturalmente non è fornita alcuna giustificazione a sostegno di una tesi netta e impegnativa come questa. C’è da presumere che le scienze cognitive e neurobiologiche, essendo compromesse con la “tecnica”, siano ipso facto “vili” e capaci di svilire qualunque cosa esse tocchino, a cominciare dall’etica. Non è difficile scoprire che qui è ancora in azione l’idea antica della superiorità della vita condotta all’insegna della filosofia su tutte le altre scelte esistenziali. Chi coltiva la “Regina delle scienze” (così è chiamata la filosofia dalla Di Cesare) fa parte del club esclusivo delle persone sveglie. Chi si dedica ad altro, invece, ne è tagliato fuori ed è condannato a un destino minore: «Si può passare la vita dormendo oppure vegliando. Chi non filosofa, senza dubbio vive, ma sminuita è la sua esistenza». Dato il disprezzo che nutre per le discipline scientifiche, la Di Cesare non prende nemmeno in considerazione l’idea che una cosa analoga potrebbero dirla, per esempio, informatici e biologi. Un informatico, poniamo, potrebbe dire che l’umanità si divide tra i pochi illuminati che hanno contezza del funzionamento dei dispositivi digitali che ormai guidano le vite di quasi tutti e le legioni di zombi che trascorrono le loro giornate passando le dita sui touchscreen dei loro tablet e smartphone senza avere la più pallida idea del loro funzionamento. Un biologo, invece, potrebbe considerare “sminuita” l’esistenza di chi non sa nulla del funzionamento e della storia evolutiva del corpo che si ritrova. Ma è inutile obiettare queste cose alla Di Cesare: per lei, per esempio, il più importante avvenimento filosofico dell’Ottocento è la diversa reinterpretazione della dialettica hegeliana ad opera di Marx e Kierkegaard, non certo la teoria dell’evoluzione del mai citato Darwin.
Per tornare agli esperimenti mentali di argomento etico, ecco come per la Di Cesare si può liquidare l’intera questione: «Il principio è analogo a quello dell’esperimento. Apparentemente realistiche, queste storielle, del tutto fittizie e astratte, fanno credere che l’esistenza sia un laboratorio dove ciascuno, senza troppi rischi, può sperimentare le ipotesi più assurde con elucubrazioni e giochi argomentativi. Che importa poi che si tratti di vita e di morte? Tutto viene banalizzato in una versione ludica dell’etica, che di etico ha ben poco».
Sembrano parole belle e vibranti di umanità, ma è facile mostrare che in realtà si tratta di un parlare a vanvera che al più esprime idiosincrasie personalissime e assai poco filosofiche. Si prenda ad esempio l’ultimo libro di Yuval Noah Harari, “21 lezioni per il XXI secolo”, uscito il 30 agosto scorso per Bompiani, lo si apra alla terza lezione, dedicata alla libertà, e si vada alla sezione intitolata “L’auto filosofica”. Qui Harari discute i dilemmi etici come quello del carrello per dire cosa ci riserva il futuro. Poiché le risposte a tali dilemmi sono legate anche alla cultura di appartenenza, come dimostrano gli esperimenti tanto disprezzati dalla Di Cesare, le case automobilistiche che progetteranno le auto a guida autonoma dovranno tenerne conto, installando algoritmi diversi a seconda dei paesi in cui dovranno commercializzare i loro prodotti dotati di intelligenza artificiale. Come si vede, i problemi etici discussi dai filosofi si stanno trasformando in problemi pratici di ingegneria alla cui soluzione affideremo la nostra vita. Ora immaginiamo un filosofo heideggeriano del prossimo futuro che prende un taxi a guida autonoma per recarsi all’importante convegno in cui parlerà del dominio della tecnica, della scienza che non pensa e della notte del mondo capitalistico, e sosterrà che “quando si pensa, ne va ogni volta della propria esistenza”, come dice la Di Cesare all’inizio del capitolo intitolato “L’estasi dell’esistenza”. Ebbene, per un tale filosofo non dovrebbe essere irrilevante sapere, per esempio, che l’algoritmo che guida il taxi è programmato per scegliere di invadere l’altra corsia, con probabilità di morte del passeggero al 70% per scontro frontale, nel caso in cui due bambini sbucassero dal ciglio della strada e si fermassero sulla traiettoria del veicolo. Perché anche quando si prende un taxi del genere, non solo quando si pensa heideggerianamente, ne va della propria esistenza.
Conclusione: fatti e interpretazioni.
Non di rado la Di Cesare descrive con eleganza e precisione apparente una realtà che, alla luce di criteri di misurazione oggettivi e controllabili pubblicamente, semplicemente non esiste. Il caso più significativo è forse costituito dalla bella premessa che, nel capitolo “Angeli sconfitti e stracciaioli”. Eccone l’ispirato incipit: «Memore della sua antica sconfitta, la filosofia rientra nella pòlis, divenuta nel frattempo metropoli globale, per rischiararne il crepuscolo, illuminarne la rovina». Poco prima si era parlato di “fantasmagoria capitalistica” da far implodere e poco più avanti si parlerà di “catastrofe imminente”. Come non pensare ancora una volta ai “venditori di Apocalisse” di Eco? Perché qui la domanda è: ma di quale realtà si sta parlando? E quale mondo storico prima della rovina si sta rimpiangendo? Davvero viviamo nella peggiore delle epoche storiche? Su quali dati controllabili si basano enunciati del genere? O dobbiamo pensare che sia solo poesia?
Riapriamo di nuovo il libro citato di Harari, questa volta alla lezione undicesima, quella sulla guerra, che comincia così: «Gli ultimi decenni sono stati i più pacifici della storia dell’umanità. Mentre nelle prime società agricole la violenza provocava il 15% dei decessi e nel XX secolo il 5%, oggi è responsabile solo dell’1%». Per questo semplice dato, che però da solo ridicolizza qualsiasi elucubrazione apocalittica sul mondo in cui viviamo, Harari rimanda in particolare alla nota 22 e al testo relativo del primo capitolo del suo “Homo Deus” (2015), nonché a un paio di fonti di dati ufficiali disponibili in rete. Per questo stesso dato, in “Homo Deus” rimandava a un lungo elenco di fonti, tra le quali spicca il monumentale libro del 2011 del famoso psicologo e neuroscienziato cognitivo americano Steven Pinker, “Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia”. Per quanto controverso, è un lavoro ricchissimo di dati e statistiche sulla storia del Sapiens; ed è inutile aggiungere che un’opera del genere, tutta incentrata su informazioni controllabili e il più possibile corrispondenti alla realtà, ai filosofi continentali come la Di Cesare non dice nulla. Essi, infatti, sanno per dettato poetico che oggi viviamo nella notte del mondo e nella peggiore delle epoche storiche; e sanno anche che contaminare la filosofia con i dati forniti dalle scienze vorrebbe dire svilirla e scalzarla dal suo ruolo di Regina dei saperi.
[Una versione leggermente più estesa di questa recensione è apparsa il 10 dicembre scorso su “Micromega” on line nella sezione “Il rasoio di Occam”].
Sei proprio nelle tenebre, tu e i tuoi filosofi.