Gela. Ci pregiamo di ospitare nella nostra piccola rubrica questi approfondimenti sulla questione meridionale, preparati dallo scrittore siciliano Aurelio Vento, nostro amico e collaboratore.
Conosciamo la serietà dell’autore, l’impegno e la passione che ha dedicato allo studio sulla questione meridionale, non tralasciando di mettere in evidenza le malefatte del popolo tosco padano nei confronti del popolo duo siciliano, con più di 155 anni di colonizzazione, aggravata dalla cancellazione storica della dignità, della storia e della tradizione del regno delle due Sicilie. Invitiamo i nostri lettori a prendere coscienza dei fatti per non confonderci con la massa di ipocriti e fenotipi che hanno avuto il coraggio di avere governato un popolo senza minimamente considerarne la storia e la dignità. Uomini che hanno solo pensato a riempirsi le tasche e a continuare a permettere ai bovari nordisti di asserire che siamo stati mantenuti da loro, mentre loro rubavano i nostri beni con una tecnica da ladri professionisti.
Come tutti i fatti di storia, per comprendere quelli attuali bisogna conoscere, sub specie veritatis, quelli antichi e generanti.
La decantazione delle passioni dovuta agli anni trascorsi e la freddezza delle documentazioni fanno emergere la storia e a smentire le inesattezze, spesso artefatte per esigenze politiche del momento. La “Questione Meridionale”, vissuta oggi dalle popolazioni del Sud come fatalistica sconfitta o come speranzosa opportunità, nasce dalla ricerca e dal raggiungimento di una Unità d’Italia che non rispondeva ad una effettiva esigenza popolare di unità di genti diversissime tra loro (Italia dai cento Castelli e dai cento Comuni). L’Unità d’ Italia e la conseguente “Questione Meridionale” viene generata da imponenti interessi economici e/o strategici sovranazionali che vedevano la penisola italiana come indispensabile nello scacchiere.
L’Unità d’Italia, ben altra cosa che campagna di liberazione di chi non si voleva essere liberato fu illegittima violenza, un misfatto, un pastrocchio fetido, premeditato e lungimirante.
Essa altro non fu che il risultato di una congiura sovranazionale, con finalità colonialistiche e imperialistiche, concepita e gestita, come vedremo meglio più oltre, da un consistente pezzo di Massoneria inglese che si servì di artefatti pubblici e strutturazioni sotterranee.
Fra queste artefatte inesattezze c’è quella relativa all’arretratezza del Regno Borbonico.
Si fanno risalire le colpe della “Questione meridionale” al precedente dominio borbonico, commettendo così un falso storico.
E, invece, il risultato di una comunicazione costruita ad arte, scientemente e proditoriamente mendace e dispregiativa, organizzata dalla Massoneria inglese e da interessati e furbi annessionisti, spesso meridionali e cinici rinnegati, quale fra i tanti, fu, ad esempio, Francesco Crispi.
DIETRO IL VELO dell’inganno
Cap 1
Sino alla imperialistica invasione sabauda, nel Regno delle Due Sicilie non si conosceva l’emigrazione, non mancava il lavoro, la scuola era gratuita e pubblica assieme a quella privata e a quella religiosa, esistevano ospizi pubblici e religiosi per i vecchi bisognosi di assistenza. La sanità, poi, che godeva della alta specificità grazie alla tradizione della antica e preclara Scuola Medica Salernitana, garantiva l’attività di circa 9000 medici sul territorio che facevano riferimento ad una fitta rete di presidi ospedalieri sparsi nella città capoluogo e all’ospedale Domenico Cotugno di Napoli. Fa pensare il fatto che questa rete, creata allora, rappresenta ancora oggi circa l’80% della rete assistenziale della odierna città di Napoli (con la differenza, però, che nel 1860 gli abitanti erano 484.000).
Questo era ciò che c’era, in quegli anni, nel Regno borbonico, contrariamente a quanto si sarebbe poi detto, che in esso ”…imperava arretratezza e feudalesimo…” Alla fame dei contadini piemontesi-savoiardi (per i quali la polenta stessa era cibo del benestante se non del ricco) si contrapponevano la strategica esistenza compensativa delle annate di scarso raccolto di numerosissimi “montes frumentarii” che garantivano dalla povertà e dalla fame i contadini delle Due Sicilie e la politica di “Demani”, primo esempio di decentramento amministrativo che sin da allora vigeva nel Regno delle Due Sicilie.
Va innanzi tutto affermato che il confronto dei sistemi economico-finanziari dei due Stati risolve ed azzera in modo incontrovertibile il mendacio storico allora perpetrato e per tanto tempo, sino ad oggi, mantenuto.
La prima ed importante considerazione è quella che lo Stato sabaudo dei Savoia emetteva banconote o carta moneta con un controvalore in oro che sarebbe dovuto essere presente nelle casse dello Stato per dargli valuta, e ciò non era!
La moneta piemontese, quindi, non godeva di buona “convertibilità” cioè era carta straccia.
Lo Stato borbonico, invece, coniava ed emetteva una moneta in oro e in argento che aveva il valore dell’oro e dell’argento in esse contenute, per cui il valore reale della moneta corrispondeva al valore nominale della stessa. Scrive lo studioso Nicola Zitara:
“… senza il saccheggio del risparmio storico dei Borboni, l’Italia sabauda non avrebbe avuto avvenire. Il denaro circolante al Sud ed era denaro vero, fornì cinquecento milioni di monete d’oro ed argento su cui la banca d’emissione sarda, che aveva metalli preziosi per soli cento milioni, potè stampare abbondantemente nuova carta moneta con valuta finalmente coperta dalle nuove riserve… ”.
A pastrocchio unitario avvenuto, il colpo di grazia all’economia del Sud fu dato dall’aver sommato il debito pubblico piemontese, enorme, nel 1859 con quello esiguo del regno borbonico e farne media; per conseguenza i meridionali dell’ex Regno Borbonico si trovarono ad affrontare una improvvisa e pesantissima pressione fiscale. Su questa si esercitò la raccolta del risparmio che venne trasferito in investimenti al Nord le cui aziende erano oramai al tracollo.
Ferdinando Ritter lascia scritto che il saccheggio della ricchezza borbonica contribuì alla formazione dell’erario del Nuovo Regno d’Italia per cui: su Seicentosessantotto milioni di Lire, in cui consisteva il totale erariale del nuovo Regno, l’ex Regno delle Due Sicilie concorse per ben Quattrocentoquarantatre milioni di lire in oro, mentre l’ex Regno sabaudo per soli Ventisette milioni, la Lombardia Otto milioni e cento, il Ducato di Modena quattrocentomila lire, la Romagna Marche ed Umbria cinquantacinquemila e trecento, la Toscana ottantaquattromila e duecento.
In effetti, prima dell’invasione garibaldina e dell’occupazione sabauda, che verrà definita dalla storia scritta dai vincitori Unità d’Italia, la ricchezza prodotta al Sud era tale che il Regno Borbonico era la terza potenza d’Europa per lo sviluppo industriale (Esposizione Internazionale di Parigi 1856) e il suo potenziale economico-finanziario era quotato alla borsa di Parigi.
La moneta borbonica o Ducato faceva aggio sulle monete europee e non era certo equivalente a quella piemontese che navigava con un debito pubblico mastodontico.
Per correggere tutte le informazioni false contenute nel testo di Vento servirebbe un lunghissimo intervento. Mi limito a pochi esempi dai quali il lettore potrà giudicare la serietà di questa ricerca.
1. Forse Vento ignora che l’istruzione elementare era pubblica e gratuita in tutti gli stati preunitari. Nei domini al di qua del Faro del regno borbonico nel 1860 le scuole maschili e femminile erano in tutto 3820 con 67.431 alunni tra maschi e femmine, cioè il 4% della popolazione tra i 5 e i 18 anni, con una spesa pari allo 0,36% della spesa totale dello Stato. Nella sola regione Lombardia c’erano 302.372 alunni, nel Regno di Sardegna: ce n’erano 361.970.
2. Due testimonianze sull’abbondanza in cui nuotavano i contadini sotto casa Borbone. Il principe di Schwarzenberg, rappresentante dell’imperatore d’Austria alla corte napoletana fino al 1848, scriveva a Metternich che “la masse du peuple languit dans une vèritable misére”.
“Noto a tutti è lo stato deplorabile delle classi operaje in Sicilia. Più deplorabile poi è la nostra classe operaja agricola la quale a guisa di tribù nomade è costretta ad esulare ora in un luogo ora in un altro, andando in cerca di un lavoro non sempre facile, ma sempre scarsamente retribuito, e ritornare alla famiglia quando sospesi i lavori agricoli non resta loro niuno scampo di onorata esistenza” [“L’Unione Italiana”, Catania, 14-8-1848].
3. All’Esposizione Universale di Parigi del 1855 – e non del 1856, almeno le date sarebbe bene darle giuste – il Regno delle Due Sicilie non ottenne alcun riconoscimento come potenza industriale perché non c’era neppure. Per fornire a eventuali lettori qualche termine di paragone, il primo paese espositore fu ovviamente la Francia con 10003 partecipanti, seguita da Gran Bretagna con 1589 espositori, Prussia (1319), Impero Austriaco (1298) e Belgio (687). Gli stati preunitari ebbero una presenza molto ridotta date le condizioni dell’economia italiana in generale, con Regno di Sardegna (204 espositori), Granducato di Toscana (193 espositori) e Stato Pontificio (43 espositori). Dalle Due Sicilie giunsero soltanto sei “regnicoli” ma a titolo individuale e a proprie spese: quattro napoletani e due siciliani, ospitati nei padiglioni degli Stati Pontifici. Prima di scrivere di storia, sarebbe meglio studiarla.
Fornirò a chiunque lo chiederà i necessari riferimenti archivistici e bibliografici.
Non entro in polemica con il sig. Marinelli percè non mi interessa farlo.
Praetor non curat minimis.
Reputo che una lettura meno prevenuta e meno incomprensibilmente astiosa dell’INTERO libro aiuterebbe una comprensione più serena.
Non ho voluto produrre un testo universitario con riferimenti e note bibliografiche bensì un sunto, uno spaccato veritiero di quanto normali letture di libri comuni di Autori con mente autonome permettano a chiunque.
In Redazione potranno dare al Sig. il titolo e il modo per acquisire e leggere il mio libro.
SUTOR NON ULTRA CREPIDEM.
Aurelio VENTO
La Redazione informi il signor Vento, del quale leggo il commento solo in questo momento, che “crepida” è sostantivo della prima declinazione, dunque l’accusativo è “crepidam”, non “crepidem” (ne sutor ultra crepidam), e che il complemento di argomento è retto dalla preposizione “de”: “de minimis non curat praetor”. Resta da capire a beneficio dei lettori del “Quotidiano di Gela” 1. perchè si voglia usare una lingua della quale si ignora la grammatica; 2. in che modo una lettura “meno prevenuta” possa far passare per corrette informazioni sbagliate.