Gela. Il 21 giugno scorso, a poco meno di un mese di distanza dall’uscita in lingua originale, la casa editrice Il Saggiatore ha pubblicato “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social” del guru informatico americano Jaron Lanier, uno dei creatori della realtà virtuale. Già in due suoi libri precedenti, “Tu non sei un gadget” (2010) e “La dignità ai tempi di internet” (2013), Lanier aveva lanciato l’allarme sulla brutta piega che sta prendendo la rete per il modo in cui tratta gli utenti, non di rado ridotti a consumatori passivi, alienati e sfruttati con la loro stessa collaborazione irresponsabile.
Con questo suo nuovo libro, che ha il tono del pamphlet provocatorio, Lanier incarna il ruolo inedito dell’integrato apocalittico, che per certi versi supera la celebre dicotomia introdotta nel dibattito pubblico sui media da Umberto Eco nel 1964. Il cinquantottenne Lanier, infatti, per un verso è un ultra-integrato, perché è tra i creatori, nella Silicon Valley, del mondo digitale in cui l’umanità si è quasi trasferita in massa negli ultimi decenni; per un altro verso, invece, egli veste i panni del dottor Frankenstein pentito che ha deciso di lanciare l’allarme sulla bruttissima piega che l’invenzione da lui e dai suoi amici messa a punto ha preso a cominciare dai primi anni di questo secolo.
Il problema, secondo Lanier, sta tutto nel modello di business che si è imposto nel web e che coinvolge soprattutto due colossi come Google e Facebook, i quali ormai sono in grado di raggiungere, coinvolgere e mobilitare miliardi di individui. Da qui il rischio di un’opera di manipolazione del comportamento così totalitariamente pervasiva e così efficace da determinare una mutazione antropologica in grado di mettere a repentaglio la sopravvivenza della nostra specie.
Ma cos’è che è andato storto rispetto ai sogni illuministici di emancipazione globale attraverso la rivoluzione digitale e il connubio tra tecnologia e creatività, coltivati tra gli Ottanta e Novanta del secolo scorso dai giovani nerd hippie come Lanier? Con mirabile e spregiudicata lucidità egli individua un unico fattore cui addebitare quasi tutta la responsabilità delle conseguenze catastrofiche non intenzionali di una scelta ingenuamente libertaria e “populista” (in senso buono) fatta una ventina di anni fa dagli sviluppatori di piattaforme social da lanciare in rete. La scelta consiste nell’aver reso gratuito l’utilizzo delle piattaforme social e dei motori di ricerca, perché l’idea era quella di non aggravare le disuguaglianze sociali introducendo una ulteriore differenziazione nelle possibilità di accesso alle informazioni tra chi poteva permettersi tale utilizzo e chi no. La gratuità diffusa avrebbe reso così la rete un’opportunità di emancipazione culturale mai vista nella storia dell’umanità. Il fattore unico, invece, consiste in un modello di business che Lanier chiama FREGATURA, un acronimo che sta per ‘Fornire ai Re dell’Economia Globale Annunci che Trasformano gli Utenti Ridotti in Algoritmi’ (nell’originale l’acronimo riproduce una parola dal significato analogo, BUMMER, cioè ‘Behaviors of Users Modified & Made in a Empire for Rent’).
Per capire di cosa si tratta, occorre porre mente agli attori in campo in una comune piattaforma social. Oltre alla piattaforma stessa, ci sono da un lato i suoi proprietari (es. Mark Zuckerberg) e dall’altro la massa enorme degli utenti. Ora, poiché gli utenti non pagano, essi non possono essere considerati i clienti del servizio. Ma allora chi sono i clienti, cioè quelli che finanziano le piattaforme con fiumi di denaro che vanno nelle tasche dei loro proprietari? Ebbene, i clienti sono gli inserzionisti, cioè quelli che hanno qualcosa da vendere attraverso la pubblicità, mentre gli utenti, ovvero i loro dati forniti spontaneamente, si trasformano nella merce scambiata. È qui che, secondo Lanier, si annida l’apocalisse antropologica.
Nel corso degli anni, gli algoritmi che mietono la messe preziosa delle informazioni sugli utenti ridotti a merce si sono evoluti al punto da essere in grado di elaborare profili significativi dal punto di vista commerciale e quindi di inviare pubblicità mirate. È il trionfo dei cosiddetti “feed” personalizzati, che pian piano costruiscono attorno all’utente una “filter bubble”, la bolla di filtraggio che gli fornisce un’esperienza sensoriale e cognitiva personalizzata sulla base del tracciamento delle sue attività precedenti. L’engagement e la fidelizzazione dell’utente vengono realizzati attraverso una scrupolosa applicazione delle tecniche di condizionamento elaborate in psicologia dal paradigma comportamentista. Nelle pagine più inquietanti del suo libro, Lanier mostra come il gioco ansioso e stressante di like e di interazioni tutt’altro che serene in cui gli utenti dei social sono coinvolti ogni giorno e per più ore al giorno non è altro che una riedizione degli esperimenti di Pavlov sui cani e di Skinner sui topi: si tratta di modellare il comportamento in modo che l’umore degli utenti venga reso funzionale alla ricezione efficace di messaggi pubblicitari relativi a prodotti commerciali e a ideologie di ogni tipo, anch’esse ridotte a merce, ovvero al loro aspetto calcolabile in termini puramente quantitativi e quindi traducibile in moneta.
Le dieci ragioni per fuggire dai social media
Che fare, allora, di fronte a questo tentativo totalitario di manipolazione del comportamento e dell’umore delle persone per scopi puramente economici, mascherati però dalla retorica della “connessione” prosociale su scala globale? La proposta di Lanier, anticipata nel titolo del suo libro, può apparire troppo drastica e difficilmente praticabile, e lui è il primo a saperlo. La provocazione, però, deve almeno aiutare a vedere il problema in maniera critica e consapevole. Egli, per esempio, pur essendo tra i più brillanti sviluppatori di software, non ha alcun account sui social media e invita i suoi lettori a provare almeno ad abbandonarli per alcuni mesi e a ritrovare sé stessi al di fuori del mondo ingannevole di relazioni sociali on line pilotate cinicamente da terzi al fine di controllarne la tonalità emotiva. Magari in attesa di tempi migliori, quando il gioco della FREGATURA, che è tutt’altro che ineluttabile (è pur sempre il frutto di una scelta storica ben precisa, come abbiamo visto), sarà crollato e nuove modalità di utilizzo dei social media, per esempio basate su un sistema di pagamento che trasformi l’utente da merce a cliente esigente, si saranno resi disponibili.
Ecco, dunque, le dieci ragioni fornite da Lanier, il quale tiene a precisare che si tratta solo delle ragioni sulle quali egli ha quella competenza specifica che gli permette di parlare in maniera autorevole, perché se ne potrebbero immaginare parecchie altre.
“Stai perdendo la libertà di scelta”. Come accennato, gli utenti sono tenuti nell’illusione di essere in possesso di una libertà che non hanno, perché le opzioni sono fissate da algoritmi adattivi “intelligenti” il cui scopo è quello di ottimizzare il servizio per il cliente, che è l’inserzionista.
“Abbandonare i social media è il modo più mirato per resistere alla follia dei nostri tempi”. È in questo capitolo che vengono definiti la macchina della FREGATURA e i suoi sei componenti: acquisizione dell’attenzione, spionaggio, indottrinamento, manipolazione del comportamento, entrate favolose per i proprietari della piattaforma e per gli inserzionisti più cinici, uso di fake news e falsi profili.
“I social media ti stanno facendo diventare uno stronzo”. Lanier descrive il Troll che è in lui e spiega come sui social tendiamo a porci in modalità “Branco”, abbandonando la più pacifica modalità “Solitario”. Il risultato è che sui social si è più propensi alle emozioni sociali negative, al flame immotivato e improvviso e addirittura al linciaggio del “nemico” opportunamente profilato dall’algoritmo anche attraverso meme confezionati ad hoc (si pensi, per riferirci all’Italia, alla campagna di odio social contro Laura Boldrini che dura ormai da anni).
“I social media stanno minando la verità”. La FREGATURA è un gioco economico che per definizione ha uno scopo non necessariamente vincolato alla verità. Tutto ciò che serve a modellare l’utente è consentito e il falso è notoriamente più efficace del vero nel muovere le emozioni.
“I social media tolgono significato a ciò che dici”. Poiché non si condivide più un contesto oggettivo ma si è immersi in bolle di esperienza create dai feed personalizzati, ciascuno interpreta i messaggi dell’altro sulla base di un contesto sempre più privato, a danno dell’intenzione comunicativa di quest’ultimo. Da qui incomprensioni, dibattiti sterili ed estenuanti, liti e frustrazioni a ciclo continuo.
“I social media stanno distruggendo la tua capacità di provare empatia”. Non poter accedere al contesto che dà significato alle parole degli altri implica anche l’impossibilità di accedere adeguatamente al loro stato emotivo, ovvero di entrare in empatia con loro; e questo significa che è a rischio uno dei tratti umani fondamentali, ovvero quella “teoria della mente”, come la chiamano i filosofi, che consiste nella capacità di simulare in noi il punto di vista di un’altra persona.
“I social media ti rendono infelice”. Questo è addirittura un risultato riscontrato in ricerche empiriche condotte dagli stessi gestori dei social media, i quali si vantano di poter incidere sull’umore degli utenti grazie ai feed. E in genere si incide peggiorando l’umore, perché così, attraverso un percorso psicodinamico ben descritto da Lanier, si raggiungono più facilmente gli scopi commerciali del gioco.
“I social media non vogliono che tu abbia una dignità economica”. Questo punto è ampiamente trattato nel libro precedente di Lanier citato sopra. In sintesi, essendo ridotto a merce, l’utente normale non ha in genere alcuna possibilità di vendere i propri dati e di guadagnare anche lui, a meno che non sia promosso al rango di influencer. Ma questa lotta per emergere è ingannevole come una lotteria, perché le probabilità di farcela sono risibili e per ogni influencer che guadagna ci vogliono legioni di utenti che lavorano gratis.
“I social media stanno rendendo la politica impossibile”. Qui Lanier usa principalmente l’esempio delle elezioni americane che hanno portato alla Casa Bianca Donald Trump, descritto altrove come un twittatore insieme bullo e vittima del gioco. La macchina della FREGATURA ha trasformato il confronto politico in una guerra tra bande di tifosi aizzate automaticamente dall’algoritmo, perché progettato per incrementare il tasso di polarizzazione delle posizioni e usare come collante dei gruppi le emozioni negative. In tal modo, per esempio, l’utente leggermente razzista in modalità Solitario e offline tende a diventare molto razzista in modalità Branco e online, con tutto quel che ne consegue. All’algoritmo non importa quale posizione prevalga (e statisticamente prevale la peggiore), perché coloro per cui lavora prosperano a suon di click nella guerra di tutti contro tutti. C’è bisogno qui di richiamare il caso dell’Italia?
“I social media (ti) odiano (nel profondo del) l’anima” (qui la traduzione italiana ricorre a una complicazione testuale non necessaria rispetto all’originale, che ha semplicemente, come titolo per quest’ultimo capitolo, “Social media hates your soul”). Lanier conclude descrivendo il sistema della FREGATURA come se fosse una religione, e a tal fine ne evidenzia quei tratti che invitano subdolamente l’utente ad assumere un atteggiamento acritico (si pensi alla gran quantità di informazioni che si accettano senza ulteriori controlli) e fideistico (si pensi a quando clicchiamo su “accetta” senza nemmeno leggere i termini e le condizioni per la creazione di un account gratuito). Non solo, aziende come Google promettono persino “paradisi” sotto forma di spazi di memoria nel cloud dove “caricare” e “salvare” un giorno la nostra anima, cioè la nostra coscienza opportunamente digitalizzata.