Il ponte e il pasticciaccio brutto che abbiamo in testa

 
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Il crollo del ponte di Genova. Foto Ansa

Che il tragico crollo di un ponte scateni legioni di pontefici che pontificano su questioni ingegneristiche, specialmente in quest’epoca caratterizzata dalla chiacchiera politicamente polarizzata sui social network, non può sorprendere chi abbia nozioni storico-etimologiche minime. La cosa è nelle parole stesse, oltre che in quegli automatismi inesorabili del pensiero di cui in questa rubrica ci occupiamo spesso.
La montagna di menzogne che ha cominciato a franare sulla rete un attimo dopo il crollo di un ampio settore del ponte Morandi di Genova costituirà per decenni un caso di scuola per gli studiosi di psicologia e sociologia della comunicazione. Qui naturalmente non si dirà una parola su ciò che riguarda i vari aspetti tecnici del disastro, da quello fisico a quello giuridico, da quello politico a quello economico, perché è materia per addetti ai lavori. Quello che invece si vuole fare è invitare a una riflessione sul perché una regola semplicissima come “Esprimi opinioni su ciò di cui hai almeno una competenza minima” sia così poco seguita dalle legioni di cui sopra.

Il gomitolo delle cause secondo don Ciccio Ingravallo
La lezione americana di Italo Calvino intitolata “Molteplicità” si apre, come si ricorderà, con la citazione di un ampio passo tratto dalle pagine iniziali di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” (1957) di Carlo Emilio Gadda. Lo scopo di Calvino era quello di illustrare, attraverso Gadda, il tema che intendeva trattare in quella lezione, concernente «il romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo». E Gadda, ingegnere e lettore attento di Spinoza e Leibniz, ben si prestava al ruolo di stimolo per l’immaginazione con la sua teoria della complessità e della pluralità delle cause, cioè con la sua idea del mondo come sistema di sistemi così interconnessi tra loro da formare un gomitolo inestricabile. Proprio tale “teoretica idea” egli mette in bocca all’inizio del romanzo al suo commissario Ingravallo, e vale la pena proporre qui il passo famoso sulle “causali”, perché ci aiuta a capire tutta la superficialità ingannevole del nostro modo di cercare le cause dei fenomeni: «Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico “le causali, la causale” gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse “riformare in noi il senso della categoria di causa” quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi (…). La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata “ragione del mondo”. Come si storce il collo a un pollo».
Con la sua prosa inconfondibile Gadda coglieva qui un punto che oggi è largamente condiviso in ambito scientifico: il mondo è una trama fittissima di cause e concause e il nostro cervello si è evoluto per cavarsela nel migliore dei modi, spesso a discapito della verità. In altre parole, quando siamo di fronte a un evento particolarmente complesso e dal forte impatto emotivo, la velocità con cui reagiamo cognitivamente ad esso in termini causali, per esempio individuando una minaccia e programmando la fuga, può fare la differenza tra la vita e la morte. Questo vuol dire che, nel rappresentarci il quadro della situazione per prendere una decisione rapida, la verosimiglianza della rappresentazione non è il primo dei nostri criteri, perché essa deve innanzi tutto funzionare. Ci piaccia o no, i nostri cervelli discendono da una lunghissima catena evolutiva di cervelli che hanno “ragionato” in questo modo. È qui una delle spiegazioni del penoso spettacolo che in questi giorni hanno offerto i vari “pontefici” improvvisati, da quelli che operano ai massimi livelli della politica alle schiere cicalanti dei loro servi volontari, alcuni dei quali, in quanto dediti ad inseguire ossessivamente la “opinion leadership” sui media, dotati di un livello di istruzione non proprio insignificante.

L’agente responsabile delle nostre superstizioni
A proposito del crollo del ponte di Genova, l’orgia imbarazzante di attribuzioni fulminee di responsabilità cui abbiamo assistito, dunque, è profondamente radicata nella nostra biologia. Non abbiamo fatto altro, in sostanza, che rivelare il modo in cui siamo stati forgiati da madre natura. Ecco perché sarebbe un errore limitarsi a condannare la poca compostezza “esplicativa” dei novelli pontefici. Quello che bisognerebbe fare, innanzi tutto, è diffondere una maggiore consapevolezza su questo “pasticciaccio” cognitivo che, tra l’altro per buone ragioni di sopravvivenza, alberga nel nostro cervello. Solo così, forse, molti comincerebbero a far posto nella loro mente a una sorta di agente censore che freni in qualche modo l’impulso irresistibile a individuare una causa semplice dei fenomeni in generale e di quelli complessi e perturbanti (come il crollo di un ponte) in particolare.
Marvin Minsky, uno dei padri dell’Intelligenza Artificiale, ha illustrato in modo molto vivido l’“agente” responsabile delle nostre superstizioni causali nel suo capolavoro sull’architettura della cognizione umana, “La società della mente” (1985). Minsky era interessato propriamente al meccanismo per cui, quando siamo posti di fronte alla complessità del mondo, siamo spinti a semplificare il tutto e a ridurlo in termini di oggetti, differenze e cause, cui nelle lingue corrispondono (approssimativamente) nomi, verbi e proposizioni. Ecco i passaggi-chiave della sezione 22.7 del celebre libro, che contiene anche una spiegazione fulminea della nostra “illusione” relativa al cosiddetto “Sé” agente: «Quando osserviamo un cambiamento, siamo quasi sempre portati a cercarne una causa. E quando non ne troviamo nessuna, postuliamo tuttavia che ne esista una, anche se magari abbiamo torto. Questo nostro comportamento è talmente radicato che non sarei sorpreso se si scoprisse che il cervello ha una tendenza congenita a cercare di rappresentare tutte le situazioni in certi modi particolari. (…) In ogni caso, si direbbe che il nostro cervello ci spinga a rappresentare delle dipendenze. Qualunque cosa accada, non importa quando o dove, siamo inclini a domandarci chi o che cosa ne sia responsabile. Questo ci porta a scoprire spiegazioni che altrimenti non riusciremmo a immaginare e ci aiuta a prevedere e a regolare non solo ciò che accade nel mondo, ma anche ciò che accade nella nostra mente. Ma se queste stesse tendenze ci spingessero a immaginare cose e cause che non esistono? In tal caso inventeremmo falsi dèi e superstizioni, e ne vedremmo la mano in tutte le coincidenze casuali. In realtà, forse, quella strana parola “io”, come quando si dice “Io ho avuto una buona idea”, riflette la stessa identica tendenza. Se siamo costretti a trovare una causa che causi tutto ciò che facciamo, ebbene, questo qualcosa ha bisogno di un nome. Tu lo chiami “io”. Io lo chiamo “tu”» (edizione italiana Adelphi 1989, p. 453 e p. 453).

Per un’etica della modestia esplicativa
Come abbiamo visto, Gadda e Minsky (ma si tratta di due esempi presi quasi al volo che ci sono tornati utili grazie alla vividezza del loro discorso) possono insegnarci due cose fondamentali e complementari: il primo – guarda caso un ingegnere, nonché sommo scrittore – ci mette in guardia sulla struttura a gomitolo complesso e irriducibile del mondo, mentre il secondo, che fu tra i pionieri nella realizzazione di robot intelligenti, sottolinea l’inevitabile tendenza della nostra mente a cercare scorciatoie e semplificazioni quando deve spiegare il mondo e se stessa.
Da qui il rischio sempre incombente non solo di cadere in spiegazioni causali semplicistiche e illusorie, generate da meccanismi di default lasciati fuori controllo, ma anche di abboccare a fake news confezionate ad arte in modo da confermare certi pregiudizi diffusi (l’imprenditore che guadagna sulle autostrade è malvagio per definizione, e inoltre egli è in combutta con i governanti precedenti, ladri per natura). Da tale rischio possiamo difenderci per esempio facendo in modo che nella società di agenti che costituisce la nostra mente venga dato più spazio ai dispositivi cognitivi in grado di vagliare con più severità le spiegazioni affrettate che spesso non vediamo l’ora di esternare o assorbire nella nostra personalissima camera dell’eco (“echo chamber”) del social network che frequentiamo più assiduamente.
E da qui, ahimè, lo spettacolo tristissimo di chi, pur avendo responsabilità di governo e con il grosso delle vittime ancora da recuperare, anziché assumere e promuovere un contegno improntato alla modestia intellettuale e all’etica della prudenza, indicava con supponenza e saccenteria cause e responsabili di un evento tragico la cui complessità dovrebbe far tremare le vene e i polsi a schiere intere di esperti; figuriamoci a pifferai magici notoriamente esperti di quasi nulla, a loro volta soffiati a dismisura come otri di Eolo dal circolo vizioso autoalimentante della sovraesposizione mediatica e del consenso elettorale.

1 commento

  1. In un articolo del genere i “pontefici che pontificano” è quanto mai azzeccato…pontifex. In mancanza di imperatori romani facciamo fare i ponti al Papa, chi più “pontefice” di lui?

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