Quando si legge il bellissimo romanzo di una scrittrice canadese ambientato in gran parte nella Siracusa e nelle isole Eolie della primavera-estate del 326 avanti Cristo, è difficile per un siciliano non pensare con stupore al fatto che in qualsiasi cartina geografica tascabile che comprendesse sia il Canada che l’Italia sarebbe praticamente impossibile vedere ad occhio nudo Ortigia e Lipari.
Già questa banale considerazione dovrebbe farci apprezzare con orgoglio la fortuna di vivere nella “spaventosa e splendida” Sicilia e di vedere ogni giorno “la bellezza di questo luogo, lo splendore dei suoi paesaggi, la dolce fragranza di fiori e frutti”. Sono parole, queste, che troviamo nelle pagine finali di “Aristotele e la Casa dei Venti” di Margaret Doody, da pochi giorni edito da Sellerio. Si tratta dell’undicesima indagine di quell’Aristotele detective, una sorta di Sherlock Holmes dell’antichità accompagnato dal suo fedele Watson-Stefanos, inventato quasi per gioco nel 1978 dalla studiosa canadese, docente di letteratura comparata ed esperta di lettere classiche e di teoria e storia del romanzo (suo è anche un saggio monumentale del 1996, “La vera storia del romanzo”, pubblicato in Italia da Sellerio nel 2009).
È interessante tenere presente che questi thriller storico-filosofici, ormai famosi in tutto il mondo, devono molto alla casa editrice Sellerio, che nel 1999, dopo oltre venti anni di oblio, ripubblicò con successo il primo episodio (“Aristotele detective”), spingendo l’autrice, oggi quasi ottantenne, a riprendere il personaggio e a produrre una vera e propria serie. E così, dopo varie avventure ambientate ad Atene, ad Eleusi, in Egitto, nei territori dell’Oriente conquistati da Alessandro Magno, ecc., l’ultima costituisce un grande omaggio alla Sicilia, e in particolare a Siracusa, a Taormina e all’isola di Lipari, che per la Doody, coincide con la dimora di Eolo “cinta da un muro di bronzo” di cui si parla nel decimo libro dell’“Odissea”.
L’idea romanzesca della Doody è insieme semplice e coraggiosa. Semplice perché, essendo i primi grandi detective della letteratura, come Auguste Dupin e Sherlock Holmes, dei grandi cultori della deduzione e dell’induzione, era quasi ovvio pensare di trasformare il padre stesso della logica occidentale in un investigatore. Coraggiosa perché, per farlo, occorrono competenze non comuni sul mondo greco dell’età di Aristotele, e le storie della Doody hanno retto brillantemente al vaglio di studiosi del settore del calibro di Luciano Canfora (il quale, per inciso, ha curato la postfazione del secondo episodio, “Aristotele e il giavellotto fatale”, risalente al 1980 e proposto in Italia da Sellerio nel 2000).
In “Aristotele e la Casa dei Venti” il filosofo, accompagnato dal suo collaboratore Stefanos, è costretto a recarsi a Siracusa dopo essere stato informato che lì qualcuno è in possesso di un dossier in grado di distruggere la reputazione di Platone, che in Sicilia si era recato tre volte, tra il 388 e il 360 circa, come ospite della corte prima di Dionisio I e poi del figlio Dionisio II. Ora siamo nel 326, Platone è morto ottantenne da oltre vent’anni e Aristotele sarebbe morto a sessantadue anni appena quattro anni dopo. Il filosofo di Stagira non crede che la maldicenza possa nuocere alla fama del suo antico maestro e così rifiuta di rispondere alla chiamata da Siracusa, nonostante l’assassinio del messaggero all’interno della stessa Accademia fondata da Platone, in quel periodo diretta da Senocrate; ma è costretto a partire lo stesso perché il suo giovane allievo Eusebio, un fanatico seguace del pensiero platonico affidato a lui dal ricco padre (partito per l’Oriente al seguito di Alessandro), avendo sentito tutto si imbarca avventatamente da solo. E così, mescolando realtà storica ricostruita nel dettaglio e invenzione romanzesca (Aristotele non visitò mai la Sicilia), la Doody ci immerge nella vita quotidiana di Ortigia e nel suo incantevole paesaggio marino, con rapide escursioni fino a Taormina e soprattutto Lipari, dove si svolge l’episodio più spettacolare del romanzo.
A Siracusa Aristotele trova una situazione politica e ideologica particolarmente complessa e tesa, perché diversi clan familiari sono in conflitto tra loro per il controllo della città, e questo gli fa correre dei rischi mortali e lo fa assistere addirittura a due brutali omicidi. C’è chi rimpiange la tirannide di Dionisio padre e figlio, chi è leale ai “liberatori” di Corinto, chi vorrebbe recuperare il sogno politico-filosofico di Dione e Platone e chi, infine, aspetta che Alessandro torni dall’Oriente e rivolga le proprie attenzioni imperiali verso Occidente. In particolare, la fazione reazionaria che vorrebbe il ritorno al potere delle stirpe dei vecchi tiranni ritiene necessario innanzi tutto porre in atto una sorta di “character assassination” – come diremmo oggi – nei confronti di Platone: infangandone la memoria, sarà più facile cancellare il suo ideale “costituzionalista” di Stato etico e riabilitare i tiranni che hanno fatto fallire le sue utopie politiche relative a un’isola di cui in fondo, come dice a un certo punto uno dei personaggi, non comprendeva le complesse dinamiche reali (cfr. p. 165). In sintesi, tre sono i punti su cui Platone viene attaccato: 1) le sue idee spiritualiste, perché comportano un disprezzo del mondo reale e una maledizione della vita umana ridotta a “colpa e subordinazione” (p. 312); 2) la sua codardia di fronte ai tiranni nei momenti di difficoltà e il suo coinvolgimento in certi intrighi di palazzo, perché squalificano il vigore etico del suo progetto politico (qui la Doody usa sapientemente certi passaggi delle tredici “Lettere” attribuite a Platone, e soprattutto, direi, delle prime tre); 3) i suoi numerosi amori pederasti, perché lo fanno apparire come un debosciato inaffidabile (e qui l’autrice si serve degli epigrammi d’amore attribuiti a Platone e riportati da Diogene Laerzio in III.29, in particolare i due dedicati a un certo Astro: cfr. p 167).
Posto di fronte ad intrighi di ogni tipo, tradimenti, doppiogiochismi, travestimenti, deliri di grandezza, creazioni di prove false, scoppi di ira assassina, che a noi lettori siciliani di oggi non possono non ricordare situazioni sciasciane e fatti di cronaca ben noti (il corvo, il papello, la trattativa, gli omicidio di mafia, ecc.), Aristotele si rende conto che la pur incantevole Sicilia è una terra difficile da capire persino per lui e rimpiange di non averla cominciata a frequentare da giovane. Ormai è troppo tardi e non gli resta che tornare in fretta ad Atene nel suo Liceo, prima che finisca nella rete da pesca che per ora, grazie al provvidenziale intervento di un esperto marinaio-spia incaricato da Licurgo di proteggerlo sotto copertura, ha imbrigliato solo i cattivi.
Unico vero personaggio positivo del romanzo è una donna, la danzatrice vestita di rosso Ninfadora, che col marito e i figli abita sulla riva del mare di Ortigia dentro una palafitta circolare (la Casa dei Venti del titolo), formando una comunità che richiama direttamente quella dell’Eolo omerico, “un’organizzazione basata sul piacere” e caratterizzata da “concessioni quotidiane alla gola, lussuria ben contenuta, incesto” (p. 81), la stessa su cui aveva meditato Aristotele in chiave antropologica con Stefanos al porto di Corinto la notte prima di imbarcarsi per Siracusa. A Ninfadora l’autrice affida il messaggio filosofico “femminista” del romanzo, perché la danzatrice sostiene a più riprese che i re, i regni, i conquistatori e le guerre passano, mentre le ninfe, con il loro potere femminile basato sull’accoglienza e sul senso del bene comune, restano e garantiscono la continuità della vita. In tal senso, la Sicilia è terra femminile per eccellenza: “Ascoltate e tenete a mente questa grande verità. Il potere appartiene alle ninfe. In Sicilia è così. C’è Etna con la sua montagna fiammeggiante, Aretusa col suo fresco ruscello, Ciane protettrice di Proserpina, Calipso, Galatea bianca come il latte, e un esercito di altre ninfe” (p. 173).
Una lezione, questa, che darà molto da pensare ad Aristotele, il quale lascerà l’isola con la consapevolezza di non aver potuto fare nulla per la giustizia. È riuscito a salvare la memoria di Platone, ma ha dovuto arrendersi a una terra che (per fortuna?) ha resistito al più grande sogno politico dell’antichità. E tuttavia il suo pensiero estremo, allontanandosi dalla costa, è relativo all’insegnamento di Ninfadora: “la Sicilia è un luogo splendido. (…) Suppongo che il potere delle ninfe significhi questo. La Sicilia e la sua gente, in fin dei conti, hanno tutto ciò che l’umanità desidera, cibo in abbondanza, acque che scorrono, e un’inestinguibile speranza” (pp. 338-339).
E se viene a dircelo un’anziana classicista canadese, cioè una che vive in un paese rispetto al quale la nostra isola è solo un ridicolo puntino del mappamondo, abbiamo tutto l’interesse a crederci.