Gela. Proviamo a rivedere la scena, prescindendo da nomi di politici e di partiti, che qui risultano irrilevanti. Sabato 24 febbraio, nella piazza principale della cosiddetta “capitale morale” del nostro Paese, un leader di partito in preoccupante ascesa, nel corso di un comizio, si autoincorona probabile futuro Capo del Governo e formula solennemente un bizzarro giuramento davanti al suo “popolo” in tripudio tenendo in mano un rosario, il Vangelo e la Costituzione. Tralasciamo qui tutte le considerazioni che molti commentatori hanno giustamente fatto sulla insensatezza di un gesto tanto inusuale in un paese occidentale e così pieno di contraddizioni e strafalcioni concettuali da risultare addirittura grottesco, e concentriamoci piuttosto su un messaggio nascosto e davvero preoccupante che esso veicola. Cosa stanno dicendoci in fondo l’uomo politico e i suoi responsabili della comunicazione? Il fatto stesso che possa venire in mente una simile pagliacciata, che persino un bambino normodotato dovrebbe essere in grado di smascherare, significa non solo che si considera il proprio elettorato, cioè una parte significativa di cittadini italiani, in possesso di uno sviluppo cognitivo e di un bagaglio culturale trascurabili (come direbbero i matematici), ma anche che non si ha alcuna intenzione, in quanto classe dirigente, di porre rimedio a un tale disastro intellettuale. Anzi, è proprio su tale stato di minorità che si vuole lucrare cinicamente per puro calcolo elettorale.
La condizione di degrado civile e culturale che un simile episodio simbolicamente illustra può essere meglio compresa riflettendo su due libri italiani apparentemente molto diversi tra loro che sono usciti proprio in queste ultime settimane. Si sa che i lettori sono artifici creati dai libri per parlare tra di loro, e “Dignità ed eccellenza dell’uomo” dell’umanista Giannozzo Manetti (1396-1459), edito da Bompiani, e “La maestra e la camorrista. Perché in Italia resti quello che nasci” dell’inviato ed editorialista economico del “Corriere della sera” Federico Fubini, edito da Mondadori, hanno solo bisogno di essere accostati per rivelare alcuni nessi profondi particolarmente significativi.
Nel primo caso si tratta della traduzione integrale dal latino di un trattato scritto all’inizio degli anni Cinquanta del XV secolo. L’autore, un ricco mercante fiorentino, che fu anche diplomatico, erudito e poliglotta, traccia con notevole anticipo uno dei più incisivi ritratti filosofici dell’uomo rinascimentale, lo stesso che nell’immaginario collettivo si incarna nel cosiddetto Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci e nel David di Michelangelo, di circa mezzo secolo posteriori. Manetti celebra le opere mirabili di cui l’uomo è capace in tutti i settori (vi è anche un notevole riferimento alla cupola di Brunelleschi a pochi decenni dalla sua costruzione), contrapponendosi esplicitamente al pessimismo antropologico trasmesso da un’opera molto letta nel Medioevo, “Sulla miseria della condizione umana”, scritta sul finire del XII secolo dal cardinale Lotario di Segni, che di lì a poco sarebbe diventato papa col nome di Innocenzo III. Quello che colpisce sempre in testi di questo genere (ce n’erano stati altri prima e altri ce ne sarebbero stati) è che nell’Italia rinascimentale, cioè quando la nostra penisola rappresentava l’avanguardia mondiale in pressoché tutti i settori della cultura, era perfettamente chiaro che la conoscenza costituisse il motore più potente del progresso umano. Manetti, addirittura, conoscendo anche l’ebraico oltre al greco e al latino, può umiliare un papa dotto e autorevole sul suo stesso terreno, mostrando che le sue tesi pessimistiche sull’uomo si basavano su un fraintendimento clamoroso della lettera stessa dei testi sacri.
Che questa fiducia nella conoscenza sia drammaticamente indebolita nell’Italia odierna è uno dei temi principali del libro di Fubini, il quale delinea un quadro impietoso del declino economico, demografico e culturale del nostro Paese. Facendo una ricerca comparata sul reddito di certe famiglie fiorentine dal XV secolo a oggi, Fubini scopre un dato allarmante: alcune famiglie di oggi, ricche, di medio reddito e povere, erano pressoché nella medesima posizione socio-economica al tempo del catasto del 1427. Il dato, com’è evidente, denuncia plasticamente la scarsa mobilità sociale in Italia, e la scuola, come dimostra Fubini con interessanti ricerche sul campo svolte tra Napoli e alcune città del Nord (Milano, Padova e Pavia), è il luogo principale in cui le diseguaglianze sociali vanno in scena e si riproducono. Quello che emerge è il ritratto di un Paese in cui povertà e sfiducia nel prossimo generano altra povertà e altra sfiducia, mentre ricchezza e fiducia nel prossimo generano altra ricchezza e altra fiducia. È come se le classi sociali fossero chiuse in bolle cognitive, oltre che economiche, poco comunicanti, e gli studi di psicologia più avanzati dimostrano che le differenze tra ricchi e poveri cominciano già nell’infanzia, quando si plasmano le principali architetture cerebrali in base al tipo di “bagno somato-sensoriale” in cui i bambini si trovano immersi.
Fubini conclude proponendo nove rimedi possibili, molti dei quali riguardano la necessità di investire di più già nella formazione primaria. Ma per chiudere il cerchio di questo nostro discorso occorre tornare all’inizio del libro. Fubini comincia descrivendo il ritratto di un giovane e ricco mercante fiorentino che tiene un libro in una mano, un’opera del Bronzino (realizzata intorno al 1530) che si trova al Metropolitan Museum of Art di New York. Ebbene, di quest’opera egli dice di aver parlato nel 2016 con il marchese Piero Antinori, un discendente di una ricca e antica famiglia fiorentina che oggi è “uno dei maggiori produttori ed esportatori italiani di Sangiovese, Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc”. Secondo il marchese, dice Fubini, il giovane del Bronzino è l’emblema dell’imprenditore rinascimentale: elegante, fiero e soprattutto colto a trecentosessanta gradi. E sebbene non citi mai Manetti, Fubini riporta un’osservazione del marchese che è anche un perfetto ritratto del nostro umanista: “I nostri antenati del rinascimento erano personaggi straordinari per capacità imprenditoriale, proiezione internazionale e cultura. Avevano un’educazione non solo nella gestione delle loro aziende, ma anche sugli antichi testi”.
Ecco, siamo partiti dal leader politico che coccola l’ignoranza più becera e pericolosa, perché legata al fanatismo religioso; ma il passo appena riportato non può non farci pensare con tristezza e sconforto anche a quell’altro personaggio di spicco che nel corso della stessa campagna elettorale ha sostenuto che, per essere più europeisti, dobbiamo formare più ingegneri e operai specializzati e meno latinisti.