Siamo alle ultime battute di una campagna elettorale per le elezioni politiche che gli osservatori giudicano in modo pressoché unanime come brutta e di basso livello. E in effetti, a fronte di una quasi totale mancanza di visioni politico-ideologiche di ampio respiro, abbiamo assistito a colpi bassi e a polemichette faziose da teatro della miseria umana, dalla conta reciproca degli impresentabili nelle liste al calcolo dei rimborsi incassati dai parlamentari, per tacere degli episodi di violenza urbana tra bande di delinquenti riconducibili agli opposti estremismi. Gli elettori, poi, sono ormai percepiti dai candidati come clienti consumatori, preferibilmente egoisti e meschini, e così la proposta politica assume la forma di una campagna pubblicitaria per vendere il prodotto più appetibile, che quasi sempre è monetizzabile: meno tasse, bonus vari, reddito di cittadinanza, ecc. Insomma, promesse da paese dei balocchi per straccioni economici e spirituali, con soldi che forse non ci sono e che certamente non sono di chi promette di distribuirli. Come se ciò non bastasse, non si sono quasi mai visti politici nelle piazze, sia perché la campagna elettorale si svolge ormai prevalentemente sui media e sui social network sia perché non di rado i candidati sono stati paracadutati dai leader nazionali in collegi lontani dalla loro origine, creando malumori tali che in alcuni casi sono sfociati in contestazioni accese o in clamorosi boicottaggi da parte degli stessi quadri locali del partito di appartenenza. Lo scenario deprimente è favorito dalla stessa legge elettorale, concepita espressamente per balcanizzare il prossimo parlamento, che in tal modo verrà composto da gruppi di fedelissimi, infiltrati da potenziali trasformisti, i quali, risultando perdenti tutti e ciascuno a suo modo, potranno cantare sfacciatamente vittoria e giocarsela con alleanze di governo innaturali da presentare poi al paese come dettate dallo stato di necessità.
Eppure un tale spettacolo offre un pascolo ghiotto all’osservatore interessato a comprendere certe dinamiche psicologiche e sociali, perché il gioco delle fazioni e del loro modo di leggere la realtà è oggi al centro di molti studi sulla cognizione umana. Proprio nelle ultime settimane, infatti, è uscito sulla rivista “Trends in Cognitive Sciences” il lungo resoconto, dal titolo “The Partisan Brain: An Identity-Based Model of Political Belief” (“Il cervello partigiano. Un modello della credenza politica basato sull’identità”) e
a firma di Jay Van Bavel e Andrea Pereira, di una ricerca condotta da Van Bavel e collaboratori della New York University. La ricerca, un buon resoconto della quale è apparsa il 21 febbraio scorso sul sito della rivista “Le Scienze” con il titolo “Perché crediamo al nostro partito politico”, riguarda il modo in cui il nostro cervello elabora le informazioni provenienti dalla realtà alla luce del corpo di credenze politiche che hanno preso il suo controllo e che costituiscono i muri maestri della rappresentazione che abbiamo di noi stessi.
Partendo da un passo di “1984” di Orwell in cui si dice che il Partito è in grado di ordinare di non prestare fede nemmeno ai propri occhi e alle proprie orecchie, Van Bavel e Pereira osservano che purtroppo non c’è nemmeno bisogno di una dittatura paranoica per realizzare uno scopo totalitario del genere, perché possono riuscirci benissimo delle democrazie costituite da cittadini poco informati e parassitati da credenze emotivamente cariche. Le democrazie, infatti, presuppongono cittadini in possesso di conoscenze accurate, ma le innumerevoli evidenze a favore di una propensione irresistibile a dar credito a notizie false e inaffidabili (gli autori usano proprio l’espressone “fake and untrustworthy news”) suggeriscono che le stesse componenti democratiche di base – informazione, responsabilità individuale e scelta – poggiano su basi precarie e risultano, pertanto, in pericolo. Non entreremo qui negli interessantissimi dettagli neuroanatomici e funzionali del modello di Van Bavel e collaboratori, che coinvolge diverse aree del cervello, ciascuna con compiti specifici di trattamento delle informazioni. Ci basta rilevare che il modello insiste sul fatto che laddove le credenze, non solo politiche ma anche religiose, sono poste a fondamento della stessa idea che un individuo ha di sé, è inevitabile che esse influiscano sulle sue emozioni, sulla sua memoria e persino sulla sua percezione (a tal proposito sono impressionanti i dati, riportati dagli autori, sul modo in cui molti americani, a seconda della fede politica, valutavano le foto delle folle che hanno assistito ai discorsi di insediamento di Obama e Trump; e si pensi agli innumerevoli esempi analoghi relativi al nostro paese). Il dato forse più interessante riguarda i soggetti dotati di spiccate competenze matematiche, dai quali ci si aspetterebbe una maggiore accuratezza analitica. Ebbene, è emerso che di fronte a un problema non matematico le capacità di analisi si riducono sensibilmente se la soluzione non è coerente con le convinzioni politiche del soggetto («people with high numeracy skills were unable to reason analytically when the correct answer collided with their political beliefs»). In estrema sintesi, il modello stabilisce che il valore che attribuiamo a una credenza dipende da un lato dagli obiettivi di precisione e dall’altro dagli obiettivi di identità, che sono quelli di appartenenza, quelli esistenziali, quelli morali, quelli di stato, ecc.; in tal modo, se attribuiamo più valore a questi ultimi, cioè se il loro valore netto prevale sugli obiettivi di accuratezza, ci affideremo a credenze sul mondo sociale e fisico meno precise per un effetto di distorsione dovuto alla preferenza che tendiamo ad accordare a tutto ciò che si allinea con la nostra identità.
Questo spiega, per concludere, perché sia così difficile mettere in discussione tali credenze radicate nell’identità di una persona, soprattutto quando mancano una larga porzione di realtà condivisa e il costume razionale di anteporre gli scopi di precisione e accuratezza a quelli di appartenenza gregaria. Lo constatiamo ogni giorno assistendo a polemiche faziose in cui addirittura si confondono fatti ed opinioni, numeri e bandiere. Il filosofo Karl Popper ripeteva sempre che, grazie al linguaggio e alla possibilità di argomentare, l’uomo ha in parte trasceso la lotta darwiniana per la sopravvivenza trasferendola dai corpi alle idee, per cui è in grado di sopravvivere alle proprie teorie sbagliate se solo coltiva e promuove lo spirito critico. Per illustrare il concetto, Popper si serviva dell’esempio dell’ameba e di Einstein e diceva che tra i due c’è solo un passo, l’unica differenza consistendo nel fatto che Einstein sopravvive alla confutazione di una sua teoria, mentre per l’ameba una mossa “teorica” sbagliata nel suo ambiente comporta la morte. Alla luce del modello qui discusso, però, l’idea di Popper ci appare ancora troppo ottimistica e la sua piena realizzazione possiamo riscontrarla solo in ambiti molto ristretti (come certe comunità scientifiche particolarmente pacifiche). La stragrande maggioranza degli esseri umani, purtroppo, facendo delle proprie credenze empiricamente meno accurate una componente essenziale del sé ed essendo sprovvista persino dei rudimenti della logica argomentativa, non ha ancora portato a compimento il passo evolutivo decisivo che separa l’ameba da Einstein.
Allora pecore, scegliete di quale morte volete morire… andate a votare come dei bravi schiavi.
Comunque avrei da ridire pure su Einstein, altro che genio! Ma la storia la scrivono i massoni.
Mi sembra di capire in tutto questo mattone, anzi masso, che se vengono eletti “politici sbagliati” è colpa del popolo, giusto?
Questo è semplicemente ridicolo, perché non esistono “politici sbagliati” o “politici giusti”. Semplicemente esistono i “politici” che sono solo pupazzetti. C’è il pupazzetto A, il pupazzetto B, il pupazzetto C e il pupazzetto D. E voi (io ho smesso da secoli di considerarli) andando a votare, scegliere solo da quale pupazzetto volete essere bastonate, povere pecore.
È questo il problema. Se più del 60% della popolazione non votasse, questa classe politica mangiona e ipocrita andrebbe a casa.