Gela. I killer designati entrarono in azione nel maggio del 1992. Venne presa di mira l’auto a bordo della quale viaggiava l’allora dirigente comunale Renato Mauro, nel corso del tempo diventato anche direttore generale dell’ente. I giudici della Corte di Cassazione hanno confermato la condanna, a tredici anni di reclusione, imposta, già in secondo grado, al quarantacinquenne Giovanni Di Giacomo. Un proiettile colpì alla mandibola il dirigente comunale e poi la pistola si inceppò. I killer si diedero alla fuga, senza completare l’azione di morte. La difesa di Di Giacomo ha impugnato il verdetto in Cassazione, ma i giudici romani hanno respinto il ricorso, con la condanna che diventa definitiva. Giovanni Di Giacomo avrebbe organizzato e poi cercato di eseguire il piano di morte, per gli investigatori su commissione di Salvatore Di Giacomo, un dipendente comunale che non avrebbe accolto di buon grado la stretta decisa da Mauro sul fronte degli appalti assegnati in municipio. Giovanni e Salvatore Di Giacomo vennero arrestati sette anni fa a conclusione di un blitz, coordinato dai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta ed eseguito dai poliziotti della mobile nissena.
Il tentato omicidio. Renato Mauro, in base alla ricostruzione condotta dagli inquirenti, andava ucciso perché aveva iniziato un’opera di riorganizzazione interna tra i settori tecnici del Comune, cercando soprattutto di fare luce sui tanti affidamenti d’appalti e lavori in somma urgenza. Un sistema, quello delle somme urgenze, che invece sarebbe stato controllato per lungo tempo proprio da Salvatore Di Giacomo, con l’obiettivo di agevolare soprattutto imprese vicine dalla stidda locale. Giuseppe Di Giacomo, un giovane che avrebbe preso parte all’azione di fuoco, confessò le sue responsabilità ma subito dopo cercò di riconquistare la fiducia della sua famiglia, allontanandosi dalla protezione delle forze dell’ordine. Le ammissioni gli costarono care, venne ucciso subito dopo e trovato cadavere nella zona di Manfria. La difesa dell’imputato ha sempre messo in discussione la ricostruzione degli inquirenti ma anche le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia. Nei precedenti gradi di giudizio, il dirigente vittima dell’agguato si è costituito parte civile, con l’avvocato Alfredo D’Aparo.