Gela. L’ex boss della famiglia Emmanuello Crocifisso Smorta, oggi collaboratore di giustizia, sarebbe entrato a piene mani nella gestione della società Comes, su richiesta dell’ingegnere Francesco Iudice. Sono entrambi a processo davanti al collegio penale del tribunale, presieduto dal giudice Miriam D’Amore, a latere Marica Marino e Silvia Passanisi. E’ stata una lunga deposizione quella resa proprio da Smorta, che ha anche risposto alle domande del pm della Dda di Caltanissetta Elena Caruso. “Avevo già lavorato per l’ingegnere tra il 1988 e il 1990, facevo da autista – ha detto Smorta – me lo presentò un politico, se non ricordo male, era in campagna elettorale forse per le comunali, un certo Emanuele Morello. Quando venni scarcerato, nel 2005, mio cognato mi disse che Iudice voleva parlare. Mi propose il dieci per cento degli utili della Comes, purché non avesse più problemi. Ad un certo punto, però, decise che dovevamo far cedere le quote ad un altro socio, circa duecentomila euro, perché sospettava che tenesse per lui una parte degli utili della società. Minacciai quel socio che, alla fine, rinunciò alle sue quote. Nel frattempo, aveva cercato di far intervenire i Rinzivillo e anche il geometra Salvatore Burgio. La questione, però, venne risolta. Gli dissi che se non avesse accettato, poteva accadergli di tutto”.
“Smorta mi accusa solo perché l’ho licenziato”. L’attenzione del pm della Dda nissena si è soprattutto concentrata intorno al maxi appalto, da circa 20 milioni di euro, che Comes era riuscita ad ottenere dal Consorzio di bonifica di Siracusa, in Ati con un’altra azienda gelese. Quei lavori, però, la Comes non riuscì mai ad eseguirli a causa di una serie di mancati adempimenti previdenziali. “Iudice diede la colpa al socio che, dopo il mio intervento, rinunciò alle sue quote”, ha proseguito l’ex boss. In base a quanto ricostruito dai pm della Dda, i manager dell’azienda romana Safab, che poi ottennero i lavori dal Consorzio di bonifica, sarebbero stati costretti a pagare, anche a Smorta. “Vista l’impossibilità di effettuare quei lavori – ha proseguito il collaboratore di giustizia – Iudice pensò di chiedere circa trecentomila euro alla Safab, per cedergli l’appalto. Tramite i Missuto, che avevano lavorato nei cantieri della diga Disueri per conto della Safab, ci fu una riunione e accettarono la richiesta di denaro. Oltre ai trecentomila euro, venne previsto un altro pagamento, da centomila euro. Soldi destinati alla famiglia di cosa nostra. Ricevetti, però, solo ottantamila euro, perché Sandro Missuto mi disse che ventimila euro li aveva trattenuti e li avrebbe subito restituiti. Daniele Emmanuello sapeva tutto e volle sessantamila euro. Ventimila euro li presi io”. Iudice, però, ha escluso qualsiasi coinvolgimento nell’intera vicenda. “Smorta lo assunsi nel 1988 e lo licenziai dopo due anni – ha spiegato il professionista rispondendo alle domande del difensore Antonio Gagliano – lo rividi solo quando venne scarcerato, ma solo per caso. Non ho mai chiesto di parlare con lui. Mi disse che voleva cambiare vita. La Safab? E’ vero contattai i vertici dell’azienda ma solo per proporre una consulenza ingegneristica nei lavori appaltati dal Consorzio di bonifica di Siracusa. Avevo già lavorato per definire gli interventi, anche se poi la Comes non poté eseguire i lavori. Mi venne comunicato, però, che l’azienda era già munita di una struttura tecnica che si sarebbe occupata dell’aspetto ingegneristico. Le dichiarazioni di Smorta, probabilmente, sono legate alla rabbia per il licenziamento. Dopo l’interruzione del rapporto di lavoro, mi disse espressamente che me l’avrebbe fatta pagare”. Nel giudizio, parte civile è l’ex socio estromesso, rappresentato dall’avvocato Cristina Alfieri. In aula, è stato sentito anche Pino D’Arma, già esponente di cosa nostra locale, che ha ricostruito le estorsioni imposte dai clan nei cantieri dell’area della diga Disueri, avviati sempre dalla romana Safab.