Gela. “Ogni tre mesi verrò a rompervi le scatole…”.
I numeri del disastro. L’allora premier Matteo Renzi, sotto l’asfissiante calura del ferragosto di tre anni fa, si era congedato così, davanti a sindaci, presidenti di Regione, ministri, preti, sindacalisti e consiglieri comunali, mentre un drappello di operai della fabbrica Eni abbozzava una timida protesta davanti al municipio. A tre anni di distanza, si potrebbe scrivere “c’era una volta la vertenza Gela”. Ovviamente, nessuno ha più rivisto Renzi a Palazzo di Città, che intanto ha avuto il tempo di dimettersi e di rientrare dalla finestra, con la guida del Pd nazionale. Il protocollo d’intesa con Eni per il passaggio alla green refinery, che adesso tutti hanno messo in quarantena, come si faceva un tempo con i lebbrosi, venne firmato tre mesi dopo. Risultato? “Cinquanta milioni di euro persi tra diretto e indotto di raffineria. Da ventimila a diecimila barili nella produzione di Enimed. I consiglieri che avevano chiesto di salvaguardare i livelli occupazionali avevano ragione. Quel protocollo è stato un bagno di sangue”. Dati illustrati, in consiglio comunale, non da un acerrimo rivale del Pd, dell’allora governo Renzi o dell’ex giunta Fasulo, ma da Giudo Siragusa, esponente di punta del Partito Democratico locale. Sembra quasi paradossale, l’intesa che avrebbe dovuto far risorgere la città, battezzata da selfie avventati con il premier e “finalmente è la volta giusta”, sta invece generando l’effetto opposto. I dati portati in aula sembrano capitoli di un libretto nero di Bram Stoker. Numeri di un disastro messi politicamente nero su bianco da quella giunta e dal governo regionale del presidente Rosario Crocetta, tutti presenti in municipio quando arrivò Matteo. Neanche l’attuale amministrazione del sindaco Domenico Messinese e del suo vice Simone Siciliano, al momento, nonostante accordi di programma, aree di crisi complessa, hub, gnl, logistica, viaggi, tavoli, call e presentazioni, sembra avere le chiavi in mano per chiudere la porta alla crisi, al “bagno di sangue”. Del resto, gli operai della fabbrica non fanno più notizia da tempo. Sono trapassati gli anni dei lavoratori incatenatati davanti ai tornelli e dei politici locali, a sinistra come a destra, che almeno si facevano vedere in raffineria, anche solo per rubare uno scatto o un’immagine televisiva. Oggi, neanche quello. I lavoratori dell’Eurotec, società che ha scelto di tagliare ventisei posti di lavoro (solo l’ultima in ordine di tempo) hanno fermato i cantieri da oltre due settimane, rischiano di non avere più un reddito, come tanti ex lavoratori dell’indotto Eni, sono in sit-in permanente, ma della politica neanche l’ombra. Ormai, è un film vecchio. Nell’indotto di raffineria e in quello di Enimed, i numeri occupazionali piangono, nonostante i manager del cane a sei zampe confermino “gli impegni assunti con il protocollo di tre anni fa”. Pochi operai sono riusciti a riabbracciare un reddito, proliferano i contratti firmati con le società di lavoro interinale (precari e rinnovati mese dopo mese) e quelli che non hanno avuto la “grazia” se ne vanno in altri siti, in Italia e all’estero. Partenze, spesso solo temporanee, ma aumentano i trasferimenti a tempo indeterminato, basta dare un’occhiata al tracollo dei dati dei residenti in città. A Palermo, Crocetta, ha appena firmato un provvedimento per il ricollocamento dei lavoratori rimasti fuori dal ciclo produttivo. Un atto piuttosto fumoso, almeno in base alle prime reazioni sindacali. Una firma quasi a “chiamata”, arrivata a pochi giorni dalle plateali lamentele dei confederali di Cgil, Cisl e Uil, dato che il processo di riqualificazione e ricollocamento degli operai rimasti a piedi sarebbe dovuto iniziare ben prima. Del resto, lo stesso “bellicoso” Crocetta, in tempi non sospetti, aveva preannunciato la chiusura dei pozzi di Eni se si fossero persi posti di lavoro in città. I pozzi pompano ancora, il lavoro invece non è così florido. I cantieri in raffineria, per i pochi “eletti” che hanno resistito al “bagno di sangue”, comunque ci sono. Pochi, ma meglio di niente. E’ questo il futuro della città? In attesa di hub, gnl, porti, logistica, turismo, agricoltura (sempre più in difficoltà) e maxi investimenti discussi ai tavoli romani?
I tanti morti. Un disastro che non risparmia i morti. Sì, perché neanche i morti, colpiti da mali devastanti dopo decenni di lavoro in fabbrica, riescono spesso a raggiungere l’eldorado, quello di “avere giustizia”. La vita non gliela salva di certo, ma perlomeno potrebbe essere un segnale, la controtendenza, un tentativo di accendere la luce dopo decenni monopolizzati solo dal “miracolo” del lavoro in fabbrica. La vicenda di Salvatore Mili, ex lavoratore dell’impianto clorosoda, si è conclusa, almeno in primo grado, con un epilogo che stona, “non luogo a procedere”. I tredici imputati, tutti ex manager e tecnici di Eni, non avrebbero avuto alcuna responsabilità, nessun ruolo nella sua drammatica vicenda. Un finale, non certo da fiabe scolastiche dei fratelli Grimm, che si è abbattuto sui familiari, da anni strenuamente impegnati a capire, anche se loro l’hanno già capito, di che morte è morto quell’operaio del clorosoda, alla fine travolto dal destino di tanti, troppi, ex colleghi. In attesa delle motivazioni, quell’esito stona. Stona come i numeri del “bagno di sangue” e come gli avventati selfie del ferragosto di tre anni fa.