Gela. Entrambi detenuti, entrambi coinvolti negli affari delle cosche locali e, adesso, entrambi al centro di altrettanti casi processuali.
Il quarantanovenne Davide Emmanuello, fratello del boss di Cosa nostra Daniele, e il quarantenne Emanuele Greco si sono presentati davanti ai giudici per contestare le condizioni della loro detenzione.
Da alcuni mesi, per la quarta volta nell’arco di vent’anni, a Davide Emmanuello è stato applicato il regime del carcere duro: a confermarlo, sono stati i magistrati della Corte di cassazione.
Per questa ragione, insieme al suo legale, ha deciso di rivolgersi direttamente al presidente della repubblica Giorgio Napolitano. L’ha fatto attraverso un ricorso straordinario che, così, finirà al vaglio dei funzionari del Quirinale. Nel ricorso, Emmanuello contesta le ragioni che hanno condotto i giudici a stabilire la prosecuzione della sua detenzione sotto le stringenti misure imposte dal regime del 41 bis.
Si fa riferimento a “trattamenti inumani” e a “vessazioni psico-fisiche derivanti dalla vanificazione di quattro revoche decise da altrettanti tribunali”. Il carcere duro per il quarantanovenne Emmanuello, arrestato nel 1993, invece, è stato giustificato con il pericolo che, nonostante la detenzione, possa ancora comunicare con l’esterno: facendo giungere veri e propri ordini agli affiliati attualmente in libertà.
Una sorte, quasi analoga, a quella del quarantenne Emanuele Greco: arrestato l’ultima volta, tre anni fa, con l’accusa di aver partecipato, insieme ad altri complici e al boss Alessandro Emmanuello, al sequestro, messo a segno a Colonia, di un imprenditore niscemese.
Greco, detenuto all’interno del carcere di Monza San Quirico, si è presentato davanti ai giudici del tribunale di sorveglianza di Milano per mettere in luce lo stato della sua detenzione e chiedere una misura alternativa.
Stando agli atti del procedimento, il detenuto sarebbe costretto, insieme ad altri due compagni di cella, a muoversi in uno spazio di soli nove metri quadrati. Inefficienze che hanno convinto i giudici del tribunale di sorveglianza a rivolgersi a quelli della Corte costituzionale. In sostanza, nell’attuale ordinamento, manca una norma che autorizzi l’applicazione di una pena alternativa in casi come quello illustrato dal legale di Emanuele Greco.
I supremi giudici, quindi, dovranno capire se, effettivamente, l’assenza di una norma di questo tipo violi l’articolo 27 della costituzione.
Nella decisione pronunciata dai magistrati del tribunale milanese, non a caso, si specifica che la detenzione di Greco si starebbe “svolgendo conmodalità disumane equiparabili a tortura”.