Il lunedì seguente Roma si era svegliata sorniona, sotto un’insolita patina di neve ed il freddo polare.
Era una giornata di marzo e fuori le mura finalmente iniziò a cadere la pioggia a dirotto.
La dottoressa Alfieri si recò, come ogni mattino e alle otto, a piazza Clodio, presso gli uffici della locale procura della repubblica.
Il silenzio dominava nei lunghi corridoi dell’edificio e mezz’ora dopo passò nel suo ufficio Dario, il quale bussò alla porta, entrò e con voce gentile e calma invitò la collega a prendere un caffè espresso all’angolo dello stabile, al solito cafè de paris.
“ Ti chiedo scusa per le incomprensioni dei giorni precedenti; ho un ombrello e saremo riparati dalla pioggia”, disse l’uomo, mostrandosi al contempo titubante e premuroso, però sempre protettivo nei sui confronti.
La sostituto procuratore, dal viso glaciale e serio, gli rispose che non le andava di prendere il caffè, soprattutto a quell’ora e con un essere abominevole e repellente: l’uomo che aveva abusato di lei.
“Vattene”, inaspettatamente gli gridò; lo ammonì che, da quel momento, gli era interdetto di darle più del tu.
Lui aveva tradito la sua fiducia e lei lo commiserava: lo invitò dunque a uscire dal suo ufficio.
Dario, a sentirsi tacciato dalla voce distante, ferma e decisa della ragazza, divenne paonazzo, con il viso cupo; la scrutò sbigottito con i suoi due occhi arcigni, infernali e cattivi.
Ripresosi dalle accuse, grinzoso nel volto e con il tono roco, le rispose pieno di rabbia, senza alcun controllo, dicendole che mai più lo avrebbe buttato fuori dalla porta, inveendole contro ogni sorta di malevolenza, ammonendola infine a non darsi delle arie, di andare a quel paese e che lei, in fondo, era solo una puttana.
“Siii.
Sei una puttana”, ribattè forte.
Lorella non perse il controllo di sé, osservò poi di non sentirsi offesa da quell’ingiuria e, tempo al tempo, lui invece l’avrebbe pagata innanzi alla giustizia, nella quale la donna – lo ammonì – continuava a credere.
Dario andò su tutte le furie, e minacciò:
“Non dire stronzate; non sentirti così sicura.
L’accusò anche di essere una femmina debole, poiché gli era bastato poco per scoparsela e portarla a letto.
“Ora lei questo non può più farlo”, gli replicò lei decisa.
“Non può abusare di me, invitandomi a bere champagne, fino a stordirmi, approfittando della mia amicizia.
Ora non più”, gli spiattellò in faccia, guardandolo diritto e fisso negli occhi acidi, stupefatti da quella reazione che gli suonò come una sentenza di colpevolezza.
“Non importa. Ti ho avuto e ciò mi basta”, le rispose stizzito, continuando a guardarla fissa, andando indietro nella stanza.
All’improvviso e pieno di collera, con una mano tremebonda, il dottor Gaymonat si voltò verso l’uscio della stanza e chiuse a chiave la porta che dava al corridoio, tirandola a sé, conservandola nella tasca del suo pantalone, come se intendesse spaventare la collega con la sua immagine di uomo forte che le sbarrava la fuga.
“Devi ringraziare Iddio che sono un uomo educato.
Tu invece sei solo una ragazzina in calore; una puttana”, le replicò sentendosi il padrone di quell’ufficio, andando su e giù per la stanza, rimanendovi dentro giocoforza perché non tollerava di essere nuovamente sbattuto fuori.
Il suo sguardo era aggressivo, minaccioso, e non aveva nulla del Dario dolce e comprensivo che lei aveva conosciuto; questa volta però lei aveva previsto la violenta reazione dell’uomo facendogli perdere il controllo e costringendolo a mostrare il suo reale carattere.
Iniziava a conoscerlo.
Lei ora era sicura di sé, all’interno dell’ufficio giudiziario che le dava la dignità di essere una donna e una magistrato, rafforzandole la forza di rispettare la legge.
Dario oramai ne era fuori e lei ebbe subito la certezza che le parole sibilline pronunciate a Fabrizio l’ultima volta che si erano sentiti, di lì a poco si sarebbero tradotte in realtà.
“Non mi intimidisci”, gli replicò.
La donna credeva con tutta se stessa che la giustizia fosse al di sopra di ogni cittadino e magistrato, e redarguì il dirigente dell’ufficio requirente romano che da quel momento, e ci giurò sopra, lui non avrebbe indossato più la toga.
“Tu sei una pazza, sei finita.
Chi credi di essere? Hai dimenticato di venire dalla melma della laguna di Venezia?
Non puoi fuggire e osi minacciarmi?
Sei solo una piccola, ridicola sgualdrina”, rintuzzò.
“Sììì”, le ghignò ancora in faccia, incapace di fermarsi nelle odiose invettive contro la collega, colto da un impeto onnipotente e schizofrenico.
“A casa tua ti ho scopato e trattato come tale.
Sei stata mia e ti ho posseduta nonostante i tuoi “no” e le false, ridicole, labili resistenze.
Ricordati che ti ho dato solo ciò che volevi, infliggendoti la giusta punizione”.
“E’ questo il punto e lei la pagherà”, gli disse Lorella ritornando forte ad accusarlo.
“Io non volevo fare all’amore; lei mi è saltato addosso, circuendomi, addirittura violentandomi.
Sì, lei mi ha stuprato, dottor Dario Gaymonat: commettendo un meschino e volgare delitto del quale dovrà vergognarsi per tutto il resto della sua vita”.
Il magistrato, a sentire la donna, non capì a cosa stesse andando incontro.
Dunque continuò nelle sue invettive, gridandole:
“Sei proprio stupida, una donnina che sa solo vivere di luce altrui, una sanguisuga dei soldi di uomini come Manlio e dei sentimenti miei e dell’avvocato Berti, che hai usato e poi gettato via.
Ma con me è stato diverso.
Ti ho dimostrato chi tra di noi è il più forte.
Ti ho avuto nel tuo letto, nuda a miagolare.
E ti ho fatto male…
Costi quel che costi”, precisò.
Già, ogni azione ha un suo costo” gli rispose lei ancor più dura e decisa, incendiandolo con lo sguardo fiero, pieno di odio.
“Le ripeto che è proprio questo il punto.
Ogni fatto umano, se illecito, va represso e punito.
E lei dovrà pagarlo”.
A sentire le continue minacce della donna, una lunga risata isterica dell’uomo si levò forte nella stanza.
Lui le dava del tu e si sentiva al sicuro nonostante la donna continuasse a dargli del lei, ammonendolo certa che egli non l’avrebbe fatta franca.
“Non mi fai nessuna paura”, le obiettò, ripetendole incessantemente e senza fermarsi di essere una sgualdrina, una donnetta da strada, per niente diversa dalle escort lady e dalle mistress girl che lui in quell’occasione le confessò di avere sempre posseduto e di avere pagato.
“Ogni donna ha un prezzo e io ho pagato il tuo”, concluse lui trionfante, con la bava tra le violacee labbra, andandole più vicino.
No!
“Lei mi ha mentito e mi ha ingannato, abusando della nostra amicizia.
Si vergogni; l’accusò infervorata.
“Siiii, Io ti ho avuto a miagolare contro la tua volontà; e sei stata mia”.
Oramai non c’era alcun dialogo, decisi ognuno a farsi del male.
Lei si portò davanti la sua scrivania, come se stesse indicandogli le distanze e, sicura di sé, aspettava di infliggergli il colpo mortale.
Il procuratore, però, imperterrito, aveva la chiave della porta nella sua tasca; nessuno poteva prendergliela e credette che impaurirla l’avrebbe ricondotta ai più miti consigli.
Pensò anche di usare il dolce e il bastone.
“Oh, Lorella, Lorella, ma non capisci.
Io mi sono innamorato di te; tu invece mi respingi, soffrendo per uomini inutili e sdolcinati”, le disse l’uomo, confidando nella sua capacità di persuasione, di farla recedere dall’atteggiamento ostile.
“Io ti voglio, ti desidero; ho dimostrato di saperti stare vicino, disposto a darti ogni cosa.
Ma adesso, suvvia, perdonami; passiamoci sopra.
Ti chiedo scusa per questo mio sfogo.
Dimentichiamo quanto accaduto, ritorniamo ad essere amici.
Vuoi?” le disse supplice di perdono, avvicinandosi sempre più alla donna, prendendola e tenendola stretta ai fianchi.
“Mi lasci stare e non sia volgare”, gli gridò, scrollandoselo di dosso e indietreggiando di un passo, fino ad appoggiarsi curva sulla sua scrivania, pur di evitare di essere toccata dalle mani del procuratore.
“Non sono disposta a perdonarla e a dimenticare.
Lei non ha capito niente dei sentimenti, ma adesso è finita.
Vada via, esca da questa stanza”, gli gridò.
Poi, si portò decisa e con il passo veloce dietro la scrivania, lo fissò con lo sguardo feroce e sollevò la cornetta del suo telefono, componendo il numero della stanza seicentodue dell’ispettore di polizia giudiziaria Francesco Mussari, in servizio presso la stessa procura, ordinandogli di raggiungerla presto nel suo ufficio.
E rivolgendosi ancora a Dario, gli disse che lui era finito, che le loro conversazioni all’interno della stanza erano state intercettate dalle microspie regolarmente richieste dai colleghi della procura della repubblica competente e autorizzate dal giudice delle indagini preliminari, spiattellandogli in faccia che ben presto lui sarebbe stato raggiunto da una misura cautelare personale per i gravi indizi di colpevolezza a suo carico, accusato del delitto di violenza sessuale.
La giudice aveva raccolto le prove e lui, poco prima, con quello sfogo cattivo, quasi blasfemo, le aveva offerto la sua piena confessione.
“Sei finito, Gaymonat.
Aspetto di vederti dietro il banco degli imputati; vedremo se avrai ancora il coraggio di ingiuriarmi, di apostrofare che sono una puttana.
E spero che sarai giudicato da una magistrato donna”, chiuse convinta e con rabbia la giovane sostituto, appoggiando le sue mani sulla scrivania, guardandolo diritto negli occhi, mentre Dario, stordito da quelle frasi, si domandò cosa diavolo stesse accadendo e perché l’ispettore Mussari fosse già dietro la porta dell’ufficio della sostituto procuratore, battendola e ordinando con la voce imperiosa di aprirla, al più presto.
Il procuratore, tremebondo e sconfitto, aprì la porta e nei suoi occhi ci fu un’espressione assente; di colpo gli ritornarono in mente le sue frasi che sapevano di confessione e le parole di Lorella pronunciate in quella maledetta conversazione che, se fosse stata veramente intercettata e autorizzata dal magistrato delle indagini, lo incastrava.
“Tu non puoi rovinarmi”, le pronunciò mentre le ferree braccia dell’ispettore Mussari lo invitavano di stare calmo, di uscire dalla stanza, sentendo la paura e l’angoscia, che gli iniziarono a bruciare dentro il petto come una foresta in fiamme.
“Non puoi farlo”, continuò l’uomo.
“Sai che proverò che hai precostituito gli indizi contro di me e sarò io a rovinarti”, le gridò a mezza voce sbigottito, incredulo alle sue stesse parole.
Dario, in preda a una crisi di nervi, che rischiò di accasciarlo nuovamente in quella stanza che lo aveva visto steso al tappeto dall’avvocato Berti, intimò alla collega gravi ritorsioni, e al contempo la supplicò di risparmiarlo.
Nel suo sguardo c’era un uomo distrutto, e si dolse di non avere avuto del buon senso, soprattutto di non avere, dentro quella stanza, tenuto la bocca chiusa.
Mentre lui si allontanava dall’ufficio, scortato dai poliziotti della locale procura della repubblica, che avevano ricevuto telefonicamente dal magistrato competente alla repressione del delitto di stupro l’ordine di portarlo via, gridò sempre più forte di essere innocente e che a Lorella gliela avrebbe fatta pagare.
“La pagherai cara. Voglio il mio avvocato”, singhiozzò.
La tensione era così alta che il corridoio della procura riecheggiò la sua voce sempre più fioca e lontana, la quale, piena di minacce e ritorsioni, ora fu nuovamente supplice e chiese nuovamente l’assistenza di un avvocato.
La dottoressa Alfieri, a sentire quelle frasi, provò la strana sensazione d’essersi trovata di fronte a un uomo distrutto da molti anni; capì che quell’increscioso fatto, il quale l’aveva vista coinvolta e offesa, fosse la goccia che a Dario fece traboccare l’equilibrio instabile, da lui abilmente tenuto nascosto alle persone diverse dalla moglie e dai figli.
Fabrizio, confidandosi al telefono qualche giorno prima, le ebbe a raccontare che il procuratore era un uomo avido con il suocero e prepotente con la moglie, dedito alle sottane ed un latin-lover arrogante, disposto a commettere ogni sorta di illecito pur di vedersi trionfante sulla donna che gli piaceva, mai però lei avrebbe creduto che fosse un uomo così meschino ed in declino.
La sostituto procuratore ritornò a sedersi nella sua scrivania, e disse tra sé e sé di non avere più paura di Dario: quell’uomo astuto, oramai inerme e impotente, iniziava a procurarle solo disgusto.
Per un attimo, ne provò anche pietà; sentì anche le lacrime bagnarle gli occhi.
Lui era stato portato via, dentro una delle stanze di sicurezza della procura, per essere interrogato sui fatti e questa volta era lui, non altri, che doveva difendersi con l’assistenza, necessaria e irrinunciabile, di un avvocato.
Lei invece lo odiava; e già sapeva nel suo cuore che dentro un’aula di giustizia ne avrebbe domandato la condanna alle sanzioni penali di legge e al risarcimento dei danni morali e psicologici.
Ma per quanto lo odiasse e ne provasse il disgusto, dentro di sé era consapevole che nessun ristoro le avrebbe restituito ciò che aveva perduto, la sua dignità e il suo Fabrizio: niente le avrebbe riparato il danno subìto.
Fu sera.
La dottoressa Alfieri ritornò a casa, dopo l’infernale e stressante giornata conclusasi con l’arresto del potente procuratore della repubblica del tribunale capitolino, che era stato condotto in una cella presso la casa circondariale di Regina Coeli perché raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, a disposizione dell’autorità giudiziaria per essere sottoposto l’indomani all’interrogatorio di garanzia.
Fabrizio e Olga, invece, quella sera convennero di stare a casa nel loro accogliente attico di piazza di Spagna, a dialogare amabilmente seduti sul divano, davanti al fuoco del camino e lontano dalle immagini dei notiziari dei network nazionali ed esteri, che durante il pomeriggio e la sera erano stati incessanti, pieni di edizioni straordinarie a dare la notizia dell’arresto del potente procuratore della repubblica di Roma, dottor Dario Gaymonat, accusato di violenza sessuale.
I due innamorati, stretti tra le loro braccia, ascoltarono della musica e si fecero trascinare dalla note soft delle chitarre elettriche dei Beatles, le quali allietarono la dimora e riscaldarono i loro cuori.
Finalmente, le tensioni degli attentati erano lontani, il premier era salvo e aveva ripreso il governo della nazione, mentre le notizie provenienti dal medio oriente erano di routine; poi la dottoressa Alfieri aveva avuto la sua fine vendetta contro un uomo disgustoso.
Fabrizio, sereno come non mai, però, disse di avere fame.
Alzatosi dal comodo divano, decise di lasciare momentaneamente il soggiorno e di rovistare in cucina, tra le pentole e i piatti, dove volle preparare una cena prelibata, a lume di candela come ai vecchi tempi, e non gli importò di starsene rintanato con l’effervescente ragazza moscovita nel suo nido d’amore a Trinità dei Monti, senza uscire dall’attico e girare by night lungo le strade della capitale del mondo.
Olga era felice di essere ad una distanza siderale dalla sua gelida Mosca, lontana dalle lunghe passeggiate sulle rive del fiume Moscova, fatte di pomeriggio, prima dell’imbrunire della sera, e calpestare le foglie morte dei rigidi autunni ed inverni russi non le mancava.
Lontana anche dal suo passato, i suoi ricordi erano sommessi, quasi sfioriti; dinanzi a sé aveva una vita e non le importava se sarebbe stata lunga o breve, poiché quella che viveva a Roma, la sua nuova città, era vissuta in due, insieme al suo amore di sempre.
Per lei non c’era il giorno e la sera, il pomeriggio o la notte.
Le interessava solo di stare insieme con il suo incorreggibile dolce ragazzo, a volte anche remissivo: un attimo con l’innamorato per lei era la vita e un’intera e lunga convivenza invece il coronamento di un sogno.
Dopo la cena, soddisfatta, l’affascinante donna si rannicchiò al suo uomo, disteso supino sul divano, poggiandole la testa sulle gambe, provando l’estasi a sentirsi accarezzati delicatamente i lunghi capelli neri, che le adornavano il viso regolare e i due occhi blu e profondi, che parlavano da soli di un grande amore.
Lei era nella sua casa, libera, sorridente come se il passato non fosse mai esistito nella sua vita.
Finalmente s’era scrollata di dosso quella strana e maligna sensazione dei giorni passati, di perdere il suo Fabrizio, che le aveva turbato l’animo e si era materializzata nella tragedia di piazza Colonna; era stato scioccante vedere in televisione le immagini dei kamikaze islamici, ripresi dalle telecamere a circuito chiuso della piazza che, all’interno delle autovetture imbottite di tritolo e una dopo l’altra, s’erano fatte saltare davanti l’ingresso principale di palazzo Chigi, e infine sentire da uno speaker della televisione di stato italiana che l’avvocato Berti era rimasto ferito gravemente nel tentativo riuscito di salvare la vita al premier.
Anni prima, una tragedia simile era stata vissuta dal popolo russo durante un attacco dei terroristi al teatro di Dubrovnik; riviverla in prima persona però era stata per la ragazza un’esperienza agghiacciante, disumana.
Ora aveva bisogno solo di non pensare più a quella sensazione che era sparita, dissolta dal piacevole calore del camino e dai luccicanti bagliori della legna scoppiettante che ardeva riscaldando l’attico, illuminando la penombra del soggiorno.
Accarezzata nei capelli e distesa sul divano, la donna guardò dal basso in alto il volto del suo uomo, assorto nei pensieri miti, simile ad un guerriero ritornato da una dura, lunga battaglia, sereno e grato al cielo di essere a casa.
Olga alzò il suo braccio sinistro e accarezzò la guancia di Fabrizio, che guardandola negli occhi, riprendendo il suo sorriso ammaliante e birichino, le disse di stare buona, di lasciarlo in pace, poiché diversamente si scrollava i panni dell’uomo di casa per lanciarsi alla conquista della sua donna.
“Lo so”, disse il giovane all’affascinante e intrigante ragazza.
“Ho l’indelebile voglia di averti per sempre, e non mi basta saperti mia; so che debbo conquistarti giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, senza dimenticare di coccolarti con queste mie mani e di baciarti”.
E la baciò teneramente.
Una, due, dieci volte.
Lei rise, pensando di Fabrizio che fosse il classico latin lover descritto dalla letteratura del suo paese, un italiano romantico e burlone, ammaliante e penetrante;.
Si ritenne ancor più fortunata dalla circostanza che fosse anche un bel ragazzo, gentile e affettuoso, che le dava sempre del filo da torcere e che la fece impazzire di desiderio anche quella volta.
A lei piacque ed era ricambiata.
Pensò anche che, vivere senza di lui, oramai le fosse impossibile.
“Uhmmm”, stai buona, lui l’ammonì.
Lei ritornò ad accarezzargli la guancia ed il collo, a dirgli ti amo, chiamandolo tesoro mio e mattacchione, incurante degli ammonimenti dell’uomo a starsene buona e di fare la brava.
L’ora era tarda e lui birbante le disse di lasciarlo in pace.
“Ne sei sicuro?”, gli rispose sibillina
Andarono a letto, distendendosi sulle lenzuola, riposando sui morbidi e colorati cuscini.
Lei lo stuzzicò ancora, e Fabrizio decise di darle la giusta punizione, in un gioco di movimenti morbidi e decisi, spogliandola nuda, trascinandola prima in una giostra di coccole e carezze, poi di baci e amplessi, fino a sfinirsi soddisfatti nelle braccia dell’altro, donandole infine piacere fino a farle vivere l’estasi.
Finalmente, la coppia viveva dei momenti felici che nessuno avrebbe rubato.
I giorni dei conflitti erano cessati.
Fabrizio si era chiarito con Lorella, la giudice aveva avuto la sua vendetta contro il perfido, potente procuratore capo e la città di Roma con la basilica di San Pietro in Vaticano erano salve, vicine alla primavera che tardava ad arrivare, liete però dei preparativi nei quartieri della città antica per la festa della fondazione.
Prima di dormire, l’uomo proiettò la memoria ai mesi e ai giorni trascorsi, valutando la difesa tecnica di Marwan Al Said ed il duplice attentato contro le istituzioni politiche e religiose italiane; poi pensò alla fatwa contro il papa di Roma che gli aveva indirettamente portato l’amore.
Un ultimo pensiero dell’avvocato Berti andò verso Safyra, la quale subito dopo gli attentati si era portata in salvo a Parigi e da lì era rientrata in patria, nella sua Palestina, mentre Olga Romanova in quello stesso istante, ritornò ad essere abbracciata al suo uomo, entrambi sereni e ancora all’oscuro di avere concepito quella sera il loro bambino.
Fu notte fonda.
I due giovani innamorati si sentirono soddisfatti, e felici si addormentarono abbracciati l’uno all’altra, nell’attesa del giorno dopo, consapevoli che il loro amore dava dei frutti.
L’indomani, i bagliori dell’alba li avrebbero raggiunti nel letto di tavole e tubi metallici costruito da Fabrizio con le sue mani, complici le persiane socchiuse dell’attico, però speranzosi che le luci del mattino tardassero a venire.
Dedicato a mio padre, alla compagna della mia vita, Loredana, ai miei figli Alessia e Saverio, ed alla mia città.
Maurizio Scicolone