Gela. “Fino al 2005, non avevamo indicazioni precise sulle misure di sicurezza da adottare. Le mascherine protettive erano in magazzino. Ogni lavoratore poteva utilizzarle ma nessuno ci coordinava”.
Le polveri pericolose. Due ex operai della società Smim sono stati sentiti in aula, davanti al giudice Marica Marino, nell’ambito del dibattimento che si sta celebrando a carico di quattro imputati, tra titolari e tecnici della società ligure, da decenni presente in città e impegnata nell’indotto della fabbrica Eni. Le accuse vengono mosse a Giancarlo Barbieri, Giovanni Giorgianni, Luigi Pellegrino e Giovanni Corvino. Sono tutti accusati di non aver adottato le necessarie misure per evitare che l’operaio Antonio Di Fede, alle dipendenze proprio di Smim, inalasse pericolose polveri di saldatura, contraendo una broncopatia acuta. Proprio l’operaio, assistito dall’avvocato Giacomo Di Fede, si è costituito parte civile dopo aver denunciato quanto accaduto. Per i magistrati della procura, il lavoratore sarebbe stato a contatto con le polveri di saldatura, inalandole, per almeno ventitré anni. “Dopo che divennero obbligatorie le figure professionali per la tutela della sicurezza – ha detto uno dei testimoni – noi spesso segnalavamo quanto accadeva sia in raffineria che nel cantiere dell’azienda. Non ricordo, però, interventi particolari”. Durante le testimonianze, è emerso come gli operai lavorassero anche utilizzando coperte di amianto per isolarsi nelle fasi di saldatura. “Prima del 1990, in pochi sapevano cosa avrebbe potuto provocare l’amianto – ha detto un operaio – spesso, gli indumenti da lavoro venivano portati nelle abitazioni private per essere lavati e non potevamo utilizzare le docce della raffineria”. I testimoni hanno risposto alle domande formulate dal pubblico ministero Gesualda Perspicace e dai difensori degli imputati, gli avvocati Flavio Sinatra, Davide Limoncello, Raffaella Nastasi, Vincenzo Cilia e Saverio La Grua, oltre a quelle del legale di parte civile Giacomo Di Fede.