Gela. Non c’era un’organizzazione imperniata intorno alla famiglia di Nicola Liardo, per gli inquirenti capace di gestire estorsioni e un traffico di droga nonostante sia detenuto da anni. Le difese l’hanno spiegato questa mattina, in Corte d’appello, esponendo le rispettive conclusioni. Gli avvocati Giacomo Ventura e Flavio Sinatra hanno del tutto rivisto la ricostruzione d’accusa, escludendo che Liardo e i suoi familiari abbiano avviato canali anche per la droga con un presunto referente catanese. I carabinieri e i pm, che portarono avanti l’inchiesta “Donne d’onore”, delinearono rapporti proprio per la droga e le estorsioni. Liardo, secondo la tesi d’accusa, si sarebbe appoggiato ai familiari che erano in libertà, principalmente la moglie ei due figli. Secondo i difensori, invece, non sono emersi elementi per ritenere che ci fossero rapporti strutturati e anzi Liardo, seppur detenuto, si sarebbe prodigato per sanare un debito, causato dal figlio, che era stato contratto con un ex compagno di detenzione etneo. In appello, la procura generale ha comunque richiesto pene più consistenti rispetto a quelle alla fine pronunciate dal collegio penale del tribunale di Gela.
Ventuno anni di reclusione per Nicola Liardo, diciassette anni e nove mesi per Salvatore Raniolo, sedici anni di detenzione per Giuseppe Liardo (figlio di Nicola), dodici anni per la moglie Monia Greco e infine dieci anni per la figlia Dorotea Liardo. Si tratta delle stesse richieste che la Dda di Caltanissetta aveva esposto nel dibattimento di primo grado. Il collegio penale rilasciò pronunce meno pesanti, per alcune posizioni escludendo l’aggravante mafiosa. Ad inizio maggio, toccherà ad un altro legale di difesa, l’avvocato Davide Limoncello. Potrebbe inoltre essere emessa la decisione.