Quattordicesimo capitolo – Attentato in Vaticano

 
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Il giovane legale, da  più di due settimane era ritornato al lavoro e già di buon mattino si trovava a studio, nell’elegante  quartiere di Roma Prati, al piano primo di uno storico stabile del novecento antistante l’ambasciata della Croazia, seduto nella sua scrivania a visionare il fascicolo difensivo dell’operazione “ambasciata americana”.

Era stato un caso giudiziario massacrante che gli era costato caro poiché, indirettamente, a causa del procedimento penale iscritto contro i propri clienti fondamentalisti islamici, indagati di terrorismo e tentata strage  ma ritenuti innocenti dal tribunale del riesame capitolino,  aveva perso la sua donna e suscitato mugugni anche all’interno della commissione governativa sulla sicurezza nazionale; solo il premier, fine garantista, gli assicurava l’incolumità salvaguardandolo dai suoi numerosi franchi tiratori.

L’intuito però gli suggeriva che la vicenda, la quale aveva avuto una risonanza internazionale e sollevato commenti poco piacevoli negli ambienti della Roma bene, nel corpo della magistratura romana e trasversalmente negli ambienti politici di destra e di sinistra, non fosse da considerarsi chiusa.

Marwan Al Said, gli aveva fissato via e-mail,  per le ore dodici, l’appuntamento nel suo studio, e l’avvocato lo aspettava con impazienza.

Erano le undici e i minuti passavano lentamente.

L’avvocato Berti rimuginò le fasi dell’arresto degli indagati, le indagini difensive dello studio legale da lui condotto fino alla lettura del dispositivo del tribunale della libertà  e l’accoglimento delle istanze di scarcerazione dei pericolosi clienti.

Possibile che la procura della repubblica di Roma fosse incorsa in un errore giudiziario così eclatante da rendersi ridicola nei confronti dell’opinione pubblica nazionale?

“E se fosse vero  – obiettò in sé – quanto sostenuto dall’uomo della strada che gli avvocati ne sanno una più del diavolo?”

Si sentì per un attimo figlio di Belzebù e rimuginò mille volte i fatti, valutandoli da angoli opposti e dalle diverse variabili.

Più l’avvocato Berti cercò di trovare la soluzione ed il filo d’Arianna, più dubbi gli assalirono la mente.

Cercando una chiave di lettura, nell’inconscio gli ritornò una figura femminile evanescente, eppure vera, la quale gli parlava al cuore, supplicandolo di aiutare suo figlio.

In quella ricerca della verità, Marwan Al Said, il presunto capo della cellula terrorista, era  l’elemento dal quale non poteva trascendersi, ma la soluzione stava in una donna,  Safyra, fedele al Corano e innamorata del marito, però al cospetto del giovane legale supplice di pietà verso il figlio, costretta a lanciare un  SOS allo sconosciuto avvocato. 

Ebbe chiaro che lei, contravvenendo alle regole del suo libro sacro e alle tradizioni palestinesi più antiche aveva parlato, da sola e senza il velo sulla chioma, con un uomo occidentale in assenza del marito o di  un parente maschio della sua casa, rischiando il ripudio della famiglia e la morte per lapidazione, pur di chiedere un aiuto.

Eppure l’avvocato Berti, quando si recò  nella sua abitazione al quartiere romano di Ottaviano, in via Palestina a lato degli ingressi dei musei vaticani, aveva avuto  la sensazione che la donna conoscesse il motivo della sua visita e fosse pronta ad offrire i documenti investigativi che il legale cercava, risultati poi decisivi nel giudizio di merito del tribunale della libertà.

Una vampata di calore lo investì:   valutò  se fosse caduto in trappola e si chiese  se Safyra fosse dunque una complice dell’astuto marito.

Fabrizio sprofondò dalla sua sedie presidenziale, le sue braccia poggiarono nervosi sulla scrivania.

L’avvocato, infine, non capiva le reali intenzioni del cliente, che il giorno prima gli aveva mandato una e-mail chiedendogli di conferire.

Qualsiasi altro assistito al suo posto avrebbe lasciato l’Italia, preso il primo volo di linea internazionale, oppure da latitante volontario si sarebbe recato clandestino in una nazione lontana, varcando anonimo il confine della stato.

Trepidante ed incerto, nell’attesa era certo che di lì a pochi minuti l’enigma fosse vicino ad una schiarita, diretto verso la soluzione.

Squillò il campanello.

Al citofono l’avvocato Berti disse all’interlocutore di salire al primo piano, interno uno.

Il cliente si accomodò nella saletta d’attesa, fin quando l’avvocato non lo invitò ad accomodarsi nel suo ufficio.

Marwan Al Said entrò nello studio professionale con il passo monotono e deciso; si accomodò vicino alla scrivania prima ancora di essere stato invitato a farlo, e si sedette pronto a conferire.

Il silenzio fu rotto dalla voglia di discutere del difensore, il quale  guardò l’ospite negli occhi e gli riassunse l’intricato caso giudiziario che si era risolto con la scarcerazione dei tutti gli indagati grazie all’accertamento della verità.

Il medico gli poggiò una lauta parcella sulla scrivania, lo scrutò e acconsentì, cercando le parole giuste per ringraziarlo dell’impegno professionale profuso; poi, finalmente, decise di rompere gli indugi e raccontargli tutto.

Erano due settimane che degli “uomini ombra” seguivano lui e i membri della sua famiglia.

Riferì pure, con la voce tagliente e lo sguardo duro, quasi demoniaco, di temere per la propria incolumità fisica; infine lamentò che gli era impossibile lasciare il paese.

Il passaporto non gli era stato restituito dai funzionari italiani della questura romana, e il personale diplomatico egiziano, negli uffici dell’ambasciata, lo aveva trattato come un cittadino marchiato da una lettera scarlatta o segnato dalle orecchie mozzate.

Disse di sentirsi una vittima e domandò giustizia.

L’avvocato, seduto comodo nella sua poltrona, lo ascoltò attentamente, fissandolo negli occhi, cercando di intuirgli i pensieri, assicurando che l’indomani si sarebbe occupato personalmente della vicenda, recandosi in questura, o addirittura negli uffici del ministero degli esteri alla Farnesina, onde permettergli di lasciare l’Italia.

Seduto dall’altra parte della scrivania, il cliente dialogava sempre calmo e impassibile, conferendo con l’autorità delle sue ragioni, raccontando di non sentirsi un cittadino egiziano ma un vero musulmano; disse anche che il suo popolo era oppresso e che la nazione islamica e araba erano chiamate alla Jahad contro il gigante americano.

Raccontò brevemente la sua storia personale.

Quindici anni prima aveva dovuto lasciare il suo paese all’ombra delle piramidi e sulle rive della valle del Nilo con tutti i beni della famiglia, iniziando dopo lunghe peregrinazioni e persecuzioni la nuova vita nel Maghreb, accumulando un considerevole patrimonio ed enormi ricchezze, coperto dai mercanti e dai politici del Marocco, destinando infine la decima parte delle sue fortune alle cause del popolo palestinese e della Jahad islamica.

Da allora, nulla però era cambiato; anzi il suo popolo era ancora più oppresso, costretto a ribellarsi contro l’oppressore, spinto a lanciarsi in attacchi suicidi.

“La strada del dialogo e degli accordi internazionali sono stati occlusi dall’arroganza degli americani e dall’intransigenza sterile degli israeliani”, obiettò.

Era andato anche a vivere in Francia, a Parigi, ma lì si era sentito prigioniero in una nazione libera, convinto che la sua libertà nascesse dall’affrancare  i fratelli musulmani e islamici che vivevano nei luoghi sacri  dell’Islam, calpestati dagli infedeli.

Confidò anche di essere un uomo religioso, un vero fondamentalista, credente in Allah e in Maometto,  l’Unico profeta.

Asserì però di non condividere la violenza e il martirio come  mezzo di risoluzione delle controversie nelle terre occupate dallo straniero.

Ora, desiderava solo raggiungere le vallate verdi del Pakistan, occuparsi della coltivazione della terra, e lì far riposare le sue ossa, insieme ai principali nuovi martiri dell’islam.

L’avvocato lo rassicurò, invitandolo a non essere pessimista.

Il cliente diceva cose acute e vere, ma il modo in cui le presentò  comunicarono all’avvocato l’angoscia ed una sensazione di pericolo imminente, anche per se stesso.

Pur con tutta l’intelligenza, il fascino e il carisma che il medico egiziano sprigionò anche quella mattina, all’avvocato gli ricordò  istintivamente la sua infanzia, piena di lacrime, sensazioni  e lutti.

Per questo motivo, quando il cliente ebbe a lasciare lo studio legale, Fabrizio si sentì dentro ancor più spronato a scavare nei fatti, ad andare alla ricerca della verità, cercando di capire perché nell’inconscio quella presenza fisica gli evocasse la morte, il nero e le oscurità di una mezzanotte senza luna.

Marwan Al Said, prima di essere accompagnato all’uscita dello studio dal legale che gli fece strada percorrendo il lungo corridoio che li separava dalla sala d’aspetto e dall’uscio, era stato invitato dal suo avvocato ad essere più accorto e di non muoversi da solo, prendendo delle precauzioni; poi, una volta nella nuova dimora fuori Roma,  nella quale il medico disse di essere un ospite, consigliò di assicurarsi di chiudere tutte le porte a chiave.

Fuori, il giorno era luminoso e soffiava un po’ di vento proveniente dalle coste del mare Tirreno che rendeva più sopportabile il freddo fastidioso dei giorni precedenti, tipico degli inverni di Roma.

L’egiziano, lasciato lo studio in fretta e furia, subito dopo, si recò in un quartiere vicino il colle Palatino, e dopo alcuni incontri nella capitale con uomini della sua stessa fede, arrivò presso una villa sulla Tuscolana, presa in affitto dai parenti solo alcune settimane prima.

Intanto, si avvicinò il crepuscolo della sera; il terrorista cominciò a sentirsi più sicuro e sereno, rispetto ai giorni prima.

Le precauzioni adottate, intanto, fecero perdere le sue tracce alle persone che lo avevano seguito sin dall’uscita dallo studio legale; probabilmente gli uomini ombra erano agenti dei servizi segreti delle potenze straniere o del Shin Bet, il potente servizio di sicurezza interna del Mossad  israeliano, ramificato nei quattro angoli della terra.

Incurante, però, riprese posto nei suoi pensieri il progetto architettato con i fratelli islamici incontrati nella capitale, che l’avevano assicurato della decisione irreversibile di punire l’ottusità occidentale, che sino allora era stata solo rinviata.

Il giorno dopo, l’avvocato ritornò al lavoro.

Le vacanze natalizie lo avevano impigrito e Olga era stata la compagna ideale di un indimenticabile viaggio in Sicilia.

Fabrizio si domandò se la nuova relazione avesse delle solide fondamenta, se  fosse amore oppure fosse un’intrigante avventura.

Era chiaro che  era innamorato della ragazza moscovita, la quale, nonostante fosse impegnata come rappresentante diplomatica negli incontri bilaterali tra il suo paese  ed il governo italiano, non gli faceva mancare il proprio amore; poi, la sua dolce giudice, suo malgrado, era lontana e solo un evanescente ricordo.

L’intransigenza dell’orgoglio della donna lo aveva messo con le spalle al muro, cercarla sarebbe stata un’umiliazione; e lui non volle subirla.

Era arrivato a studio di buon mattino, quando squillò il telefono.

La voce che chiamava era quella di una donna dall’accento arabo, terrorizzata dagli imminenti pericoli e dalle catastrofi che solo Allah, l’Unico Vero Dio, poteva evitare.

Safyra supplicò ancora una volta l’avvocato di ascoltarla, pregandolo di raggiungerla subito alla fermata dell’underground di  piazza di Spagna.

Lì gli avrebbe parlato, ricordandogli di giungere il più presto possibile.

“Subito”, gli supplicò.

Fabrizio indossò il cappotto, prese la sua borsa the bridge e uscì velocemente dallo studio, indirizzandosi verso la prima fermata della linea A della metropolitana, a soli cinque minuti dall’ufficio legale, che fu raggiunta in fretta.

All’angolo dell’uscita di piazza di Spagna, attraversato il lungo tunnel che conduceva sulla strada, Fabrizio Berti camminò a passo veloce verso l’ampia piazza nella quale si intravedeva a sinistra la fontana della barcaccia di sua santità Urbano VIII Barberini e,  poco lontano a destra  notò la donna vestita in un abito tipicamente musulmano, con il viso parzialmente coperto dal velo, a lato di via del Babbuino;  la invitò a seguirlo, mettendosi in disparte, entrando nel portone di un edificio antico che dava al cortile e al giardino interno.

Lei lo seguì in silenzio, e non appena svoltò l’angolo interno del palazzo, verso il giardino, si fermò guardandolo, preoccupata.

“Ehi, si sente bene?,  disse il giovane, chiamandola col nome.

“Per un attimo ho pensato che la paura le avesse inibito la decisione di incontrarmi e credevo di non trovarla qui, all’appuntamento”.

Lei gli rispose con un cenno di assenso.

Timorosa continuò a guardarlo fisso negli occhi, senza pronunciare una sola sillaba e frase.

Fabrizio cercò di scuoterla dal torpore, magari facendola sorridere. Capì che non era il momento di farlo e che la situazione fosse veramente grave.

La donna era piena di paura, sola e smarrita in una nazione straniera da lei non conosciuta, tremula di tensione, come se avesse voluto fuggire da quel luogo per ritornare nella sua dimora e non essere scoperta  per l’improvvisa, ingiustificata uscita  verso il centro storico della città eterna.

Mai aveva provato tanta incertezza e smarrimento, mai era stata sola come in quel momento, cercando l’aiuto di uno sconosciuto.

Rompendo il silenzio e il suo segreto, la donna riuscì a pronunciare  sul giovane una benedizione, dicendo: “che Allah ti protegga” prima che le lacrime le inondassero gli occhi abbassati, prima ancora che le scendessero a fiotti nel viso coperto dal velo.

Fabrizio non capì ma avrebbe voluto abbracciarla, consolarla, dicendole di non sentirsi sola, che lui era lì per aiutarla, a qualsiasi costo.

Per rispetto della donna non lo fece, e con una mano le sfiorò il braccio, per comunicarle in un segno tangibile la sua solidarietà.

Safyra decise così di rompere gli indugi e prese la parola, parlandogli veloce poiché aveva poco tempo, terrorizzata dall’essere scoperta dal marito o da uno dei suoi fedeli servitori.

I suoi singulti si acquietarono, anche se da anni lei soffriva nel silenzio, messa in disparte nelle decisioni del compagno, considerata dallo stesso solo una res privata da possedere.

Lei, in quel gesto di essere presa in una spalla dalla mano di Fabrizio, capì che non tutti gli uomini sono arroganti e prepotenti.

Anche se non era un abbraccio vero si fidò dell’uomo che le stava accanto ed al quale volle chiedere aiuto.

Lui era un uomo gentile, buono, e non le mostrò alcuna invadenza sulla sua dignità di donna e di musulmana.    

Marwan l’aveva educata ad un comportamento ortodosso rispetto alla fine disciplina impartitale dai suoi genitori, insegnanti in una scuola coranica nelle terre occupate della Cisgiordania, cancellando in lei ogni forma di laicità rispetto al fondamentalismo del suo credo religioso; negli ultimi anni, il medico aveva utilizzato le sue ricchezze per il martirio della causa araba,  assunto poi un ruolo sinistro all’interno di un gruppo di fratelli musulmani ed integralisti islamici che operava nel medio oriente e da alcuni anni era anche vicino alla cellula  di Al Qaida.

“Posso aiutarti?”, chiese l’avvocato alla donna, mentre lei si aspettava che le desse la parola; con le lacrime agli occhi gli confessò che il marito aveva deciso irreversibilmente di votare al martirio l’unico loro figlio, eleggendolo a componente di un gruppo di kamikaze.

“Muhammad ha solo diciotto anni, davanti a sé una lunga vita e gli anni migliori, ma il padre e la Fatwa scagliata dal consiglio degli Ulema contro il Grande Satana vogliono portarmelo via”, pronunciò a singhiozzi.

“Qualche giorno fa ho sentito discutere mio marito con i suoi fratelli islamici,  chiuso nel salone della nuova dimora fuori città, sentenziando che il tempo si è compiuto e il Grande Satana, qui a Roma,   sarà colpito mortalmente al cuore.

Cinque uomini porteranno  la fatwa a compimento e Marwan ha detto di essere onorato della scelta dell’Unico Dio che gli ha chiesto in sacrificio anche nostro figlio.

Non volevo credere alle mie orecchie, ma quando loro sono andati via, sono entrata nel salone, ho rovistato nelle carte poggiate a terra sul tappeto  e lì ho capito.

Tra le carte c’era la fatwa, il comando religioso scritto di pugno da un grande Imam, che ordinava, in nome di Allah e di Maometto, suo unico Profeta, di attaccare il cuore della civiltà degli infedeli, seminando la morte e la distruzione nelle loro case.

Il Paradiso, poi, sarà assicurato ai martiri; ogni bene, la ricchezza e cento vergini poi erano loro donati per l’eternità.

Inshallà.

Cinque nomi erano indicati su un foglio; uno era quello di Muhammad Al Said, mio figlio.

Accanto a queste carte c’erano due cartine geografiche, una della città di Londra, con Backingam Palace; nell’altra c’era Roma e i suoi aeroporti, segnati con due cerchi: con quello rosso era individuato l’aeroporto di Fiumicino, mentre con uno azzurro  quello di Ciampino.

Ho notato anche che erano marchiati con altri cerchi rossi il Vaticano e la Basilica di San Pietro, mentre il maestoso Colosseo era segnato con un altro cerchio azzurro.

C’erano evidenziati altri monumenti storici che, per la fretta di visionare, non ho notato. Di questi non ho ricordi”, precisò focalizzando la sua memoria sulle immagini che le scorsero avanti come un fiume che esonda.

“Ancora c’erano dei fogli con delle preghiere ed in una di loro il nome di mio figlio era ripetuto cinque volte, quante le vergini che l’aspettavano subito nel paradiso.

E poi c’erano altre carte e documenti che non sono riuscita a leggere”;  immediatamente sono scoppiata a piangere.

“Per anni ho servito Marwan come mio unico signore e padrone della mia vita, nel silenzio, sopportando ogni umiliazione, facendomi corrodere dall’odio che lui nutre contro il mondo occidentale, seguendolo fedelmente nella causa della nazione islamica, sacrificando la nostra vita e il bene della famiglia.

Sono sicura però che Allah, il mio e il tuo Unico Dio, non vuole la morte di mio figlio e, per sua mano, quella di altri uomini, donne e bambini innocenti.

Egli è un Dio di Amore, non di collera, di odio e di violenza.

E’ l’Iddio di tutte le madri.

La fatwa lanciata contro il Grande Satana grava sulla città di Roma, simbolo della cristianità e del mondo occidentale, e mio marito Al Said  è il suo strumento di morte.

Lui crede di essere un Madhi, invece è solo un assassino.

Ma devi fermarli”, singhiozzò a singulti la donna, ritornando a piangere e lasciandosi andare appoggiata ad un muro, vincendo però il timore e il rimorso di accusare il marito, perorando supplice che le fosse risparmiata la vita del giovane figlio.

Fabrizio la guardò fissandola negli occhi neri e profondi, quasi incredulo di credere alle parole ascoltate.

Scosso e frenetico, con entrambe le braccia, l’afferrò decisa alle spalle con due terribili morsi.

Le chiese se fosse sicura di quanto raccontato.

“Sì”, rispose la donna senza esitazioni.

“Ho sentito che Domenica, tra cinque tramonti, si compirà il giorno della vendetta santa ed il Grande Satana sarà annientato”.

Safyra, con quella confessione, smise d’un tratto di piangere, come se si fosse liberata dal fardello pesante quanto un macigno, visibilmente sconvolta ma con lo sguardo forte, deciso ed il pensiero proiettato sul viscido viso del perfido Marwan, l’uomo che aveva abusato di lei, calpestandone la dignità di donna, trattandola male e sottomettendola sessualmente, simile ad una prostituta, pronta nel soddisfare ogni richiesta dell’uomo.

A quattordici anni l’aveva comprata dal padre, un onesto maestro palestinese che viveva nei campi profughi della Cisgiordania, strappandola alla madre, ai suoi fratelli e alle sorelle, con la scusa di sposarla.

Nei vent’anni di matrimonio lui era stato il padrone, il despota e un violento, che la possedeva ogni qual volta lo desiderasse, senza domandarle se le andasse di fare all’amore o provasse piacere a giacergli accanto, pretendendo di essere amato e servito come il suo unico signore.

Le parve incredibile di non avere aperto gli occhi e capito prima di allora, di non avere ascoltato la voce interiore che le suggerì che ogni donna, anche nel Corano, ha la sua dignità, pari a quella di un uomo.

Istintivamente, appoggiata al muro, portò le sue mani nel capo e si scoprì il volto, poggiando il velo sulle sue spalle, mostrando la lunga chioma e i due occhi neri e profondi di cerbiatta che indicavano la sua freschezza, in una dirompente e struggente bellezza di donna araba e mediterranea, dal fascino del profumo d’oriente e simile alla luna illuminata da un cielo dalle mille costellazioni.

I suoi capelli erano lisci e neri, di un nero lucido e lunghi, e le labbra rosse di gelso, avvenenti e sensuali.

Con quel gesto, lei si sentì libera, e fiera di conferire alla pari con un uomo.

Fabrizio la guardò sbalordito, confuso, desiderando di abbracciarla per dimostrarle la sua amicizia, ma non lo fece ancora per onore delle tradizioni della donna musulmana che le proibivano  di essere accarezzata da un uomo che non fosse suo marito, anche se l’abbraccio sarebbe stato il segno tangibile e evidente del rispetto   solidale che le mostrava.

L’uomo e la donna non aggiunsero altro.

I loro sguardi, profondi e pensierosi, s’incrociarono; gli occhi parlarono al posto delle loro labbra.

Occorreva decidere il da farsi.

Era opportuno che la donna rientrasse nella sua dimora, per non essere scoperta ed interrogata sul perché fosse uscita dalla sua casa senza il permesso del capofamiglia  e, in sua assenza, del figlio.

Marwan, se avesse saputo, certamente l’avrebbe uccisa.

Invece, Fabrizio provò l’istinto di recarsi subito presso il primo comando di polizia di stato a riferire quanto da lui appreso, allarmando le forze dell’ordine civili e militari per reprimere il progetto di strage.

In quegli attimi, veloci quanto la luce, Fabrizio pensò altre mille soluzioni, però ognuna si scontrava con la realtà.

Restò inerme, indeciso.

L’avvocato aveva avuto le confidenze della donna, la quale per indole e cultura, mai ad un giudice straniero avrebbe confermato le sue accuse.

In mano non aveva nulla, se non i labili indizi confidenziali del piano terroristico di colpire un obiettivo sensibile nella città di Roma.

Impose a se stesso di mantenersi calmo, come se nulla fosse accaduto, pur se sentì la necessità di parlarle ancora.

Invitò dunque la donna ad essere più accorti e  ad andargli dietro in un piccolo caffè lì vicino, dove si sedettero guardinghi in un tavolo posto all’angolo, la cui vista era inibita ai passanti della strada e difficile da vedersi agli stessi avventori del locale.

Il giovane legale ebbe alcuni momenti per pensare e valutare quello che la moglie del cliente con le lacrime agli occhi gli stava raccontando,  organizzandosi le idee e riprendendosi dall’iniziale atteggiamento d’incredulità e di stupore, prima ancora di congedarla e permetterle di rientrare nella sua dimora.

La donna era pallida, scossa, il suo fascino contrito da un atteggiamento compassionevole, quasi sofferente.

Lei non voleva coinvolgerlo nel suo dramma personale; era consapevole però che il suo destino e quello di molte persone innocenti dipendessero dal giovane straniero, il quale le sembrò anche onesto e leale.

Era certa che, comunque andassero le cose, la sua vita era oramai sconvolta, distrutta, e la sua casa perduta con gli affetti.

C’era però una speranza di salvezza per il giovane ragazzo, il quale amava il padre ma ancor più la stessa vita.

Suo figlio avrebbe vissuto anche per lei, pensò.

Probabilmente il padre era riuscito a coinvolgerlo nel suo progetto criminale violentandogli la volontà, costringendolo a provargli di non essere un vigliacco.

Era così; il medico egiziano amava più se stesso che il figlio e la patria che non aveva;  poi, se l’avesse avuta, perderla non era un dramma.

La libertà del suo popolo e la gloria di Allah, l’Unico Vero Dio erano solo i comodi alibi dietro i quali nascondere l’inferno che gli era dentro.

Invece, al piccolo Muhammad, la madre doveva molto.

Da bambino era stata la sua forza per vincere il dolore e il tormento di sentirsi sola, nelle grinfie dell’astuto egiziano che era il suo padrone,  che con pochi denari l’aveva acquistata in un campo di profughi, strappandola ai genitori e alla sua famiglia.

“Non lo so”, rispose lei sopraffatta dalle emozioni.

“Allah è grande.

Lui conosce ogni cosa, gli esclamò.

Improvvisamente, si alzò non aggiungendo una parola e s’indirizzò veloce verso la strada, senza che Fabrizio riuscisse a seguirla ed a fermarla.

In fondo, andando via, era come se lei lo avesse salutato, mettendogli nelle mani la vita ed il suo destino, senza nulla chiedergli se non di ascoltare il grido di una madre di salvare il figlio che rischiava di morire.

L’unico modo di ringraziarla era aiutarla.

Fabrizio rimase seduto nella caffetteria, fermo, impassibile, pensando però  di muoversi velocemente, per evitare qualcosa di terribile, ripercorrendo le frasi della donna, analizzandone le emozioni e ogni minimo movimento o gesto, al fine di capirne i pensieri e la psiche, formulando infine le diverse ipotesi circa il piano del capo dei terroristi e i suoi fratelli islamici di attentare ai simboli della cristianità e del mondo occidentale.

Era pazzesco che  Safyra si fosse rivolto a lui.

Valutò anche l’ipotesi che la donna misteriosa potesse mentirgli o raccontare una verità forviante che le permettesse di raggiungere uno scopo preciso, il quale, in ogni caso, era quello di dividere il figlio dal padre e forse lei stessa dal marito.

Fabrizio si sentì nel pallone, confuso ed incerto, prigioniero di un incubo notturno nel quale egli non ebbe  la possibilità di svegliarsi.

Ma cosa fare, dove fuggire?

Era meglio rivolgersi alla polizia, informare la procura della Repubblica capitolina o telefonare all’amica giudice e dirle che la cercava per conferire con un inquirente, per raccontarle  l’accaduto, cercando una comune soluzione?

Addirittura, era meglio prendere i contatti con i servizi segreti e riferire personalmente al presidente del consiglio l’immane tragedia che si prospettava?

Poi, le sue rivelazioni erano credibili, dopo aver difeso lo stesso Marwan Al Said, ottenendone la scarcerazione perché ritenuto un presunto innocente dal tribunale della libertà di Roma?

E se avesse preso un abbaglio, accusando ingiustamente il cliente?

Gli indizi a carico del medico egiziano erano labili; ogni fondamentalista islamico sogna il proprio martirio e  prega  per la distruzione del Grande Satana e  della sua chiesa apostolica romana.

Fabrizio rischiava di pregiudicare la sua immagine di integerrimo avvocato penalista che si era creato con anni di sudore, e di essere considerato un pazzo.

Era una giornata da incubo, uscita da un sogno notturno, eppure vera e reale.

Il legale decise di uscire dalla caffetteria e di ritornare allo studio, percorrendo a piedi alcuni isolati, riflettendo tra se e se, senza chiamare un taxi o risalire sulla metropolitana al fine di raggiungere immediatamente la meta.

Giunto a studio in una manciata di minuti, vide sotto casa dei movimenti strani, quasi impercettibili, ma che i suoi sensi intuirono.

Rimase perplesso dei fatti accaduti la mattina; ora degli uomini vestiti con grigi impermeabili erano fermi vicino l’angolo della strada.

A Roma, d’inverno, gli italiani indossano dei soprabiti, ma non amano stare impalati sul marciapiede, vestiti impeccabilmente e confabulando senza far niente.

Ebbe la sensazione di essere seguito e che degli uomini ombra, come Marwan Al Said aveva chiamato i suoi pedinatori, lo sorvegliassero.

Era proprio una giornata allucinante e forse la mente gli rimuginava delle distorsioni nell’immaginazione.

Però quegli uomini, che all’istante sembrarono disinteressarsi del giovane avvocato, erano lì, vestiti con abiti tipicamente anglosassoni e scarpe alla francese.

Di certo non erano poliziotti italiani.

Ne dedusse che fossero degli stranieri, probabilmente alla mercè degli interessi dei servizi di intelligence di paesi stranieri.  

E poiché i giorni precedenti non erano lì, Fabrizio collegò la loro presenza alla visita del medico egiziano presso il suo studio; concluse che gli uomini sorvegliati fossero più di uno, che il cliente fosse pedinato e dai suoi controllori erano raddoppiate le sorveglianze ogni qual volta il medico avesse il contatto con una persona sospetta, che offrisse spunti alle indagini.

Fabrizio entrò in studio, incerto sul da farsi e rimuginando i fatti, capì che l’egiziano era pericolosissimo. Andava fermato.

Dall’attacco alle torri gemelli newyorkesi le misure di sicurezza e di protezione degli obiettivi sensibili italiani contro i terroristi islamici erano stati predisposti e irrobustiti.

Le fonti della sicurezza nazionale avevano messo in guardia da possibili   attentati, poi una cellula criminale della rete islamica era stata segnalata in Italia.

Forse il cliente egiziano era il suo capo; un criminale spietato ed intelligente tanto che,  sentitosi addosso il fiato degli inquirenti italiani, aveva previsto il suo arresto.

Fabrizio si ricordò del colloquio avuto in carcere con il cliente; questi non si fece nessuno scrupolo a conferire con il difensore, perorando la sua innocenza e indicando, preciso e freddo, gli elementi probatori da inserire nella strategia difensiva.

La sua furbizia, tipica di un mercante del mondo arabo, aveva considerato gli eventuali indizi di colpevolezza che potessero essergli contestati; l’attentato all’ambasciata americana, il piano stragista a Roma erano stati mirabilmente criptati dalla omonimia con la nave cargo battente bandiera americana e da un’attività commerciale che, come sostenuto dalla sostituto procuratore Lorella Alfieri, erano di copertura del disegno criminale.

Il medico egiziano s’era specializzato alla Sorbona di Parigi in medicina interna e, da buon chirurgo, aveva agito mettendo in atto un’operazione scientifica, estremamente efficace.

Fabrizio, nel ripercorrere i fatti, riconsiderò il cinismo e l’apparente austerità del cliente.

In realtà, capì che questi si era servito del suo difensore per produrre ai giudici  il materiale probatorio precostituito come alibi a discapito delle accuse; e  il cognato aveva il compito di consegnarglielo nel suo studio.

Nessuno però aveva previsto che l’avvocato Berti avrebbe conosciuto  la ragazza palestinese, ricevendone le confessioni.

Lei, complice del marito, era al corrente del piano di attacco già da quell’incontro con l’avvocato  Fabrizio Berti sulle scale della prima abitazione romana in via Palestina, nel quartiere di Ottaviano,  ma da quel dialogo casuale fu combattuta tra quanto le era stato ordinato da Marwan e quello che le dettò il cuore.

Risultò evidente al giovane legale che il destino, scritto dal Dio dei cristiani o dei musulmani, oppure ancora da un dio minore, gli imponesse la missione di salvare delle vite di innocenti.

Safyra  era il suo strumento.

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