Gela. “Non auguro a nessuno di dover dormire respirando da una bombola dell’ossigeno. La fabbrica Eni ha prodotto lavoro ma anche tante morti”. “Non sapevamo con quali sostanze entravamo in contatto”. E’ stato l’operaio Antonio Di Fede a raccontare la sua lunga vicenda lavorativa, vissuta tra gli impianti dello stabilimento di contrada Piana del Signore. Si è costituito parte civile, rappresentato dal legale Giacomo Di Fede, nel processo avviato ai danni di manager e tecnici della società Smim. A giudizio, ci sono Giancarlo Barbieri, Giovanni Giorgianni, Luigi Pellegrino e Giovanni Corvino. Sono tutti accusati di non aver adottato le necessarie misure per evitare che l’operaio, alle dipendenze proprio di Smim, inalasse pericolose polveri di saldatura. “L’azienda – ha continuato il lavoratore – ci forniva maschere e guanti ma nessuno sapeva con quali sostanze entravamo in contatto al momento delle saldature. C’era di tutto, comprese sostanze pericolose e amianto. Oggi, sono affetto da una broncopatia cronica e, da poco, ho ricevuto, come altri 114 colleghi, un provvedimento di licenziamento da Smim”. Così, l’operaio ha risposto alle domande formulate dal pubblico ministero Sonia Tramontana e dai difensori degli imputati, gli avvocati Flavio Sinatra, Davide Limoncello, Vincenzo Cilia e Saverio La Grua. Proprio i difensori hanno cercato di collocare con maggior precisione l’eventuale periodo di maturazione della malattia contratta dal dipendente. Per i magistrati della procura, l’operaio sarebbe stato a contatto con le polveri di saldatura, inalandole, per almeno ventitré anni. I difensori, invece, hanno fatto leva sui periodi di lavoro precedenti a quelli legati a Smim. Il dipendente, infatti, ha comunque precisato di aver avuto esperienze occupazionali anche in una fabbrica lombarda. Ipotesi contestate dal legale dell’operaio. “Alla fine – ha concluso Di Fede – portavo tutto a casa. Per noi dipendenti delle aziende dell’indotto non c’erano le docce. Quindi, tutte le polveri accumulate sugli indumenti arrivano nella mia abitazione”. La parte civile chiede un risarcimento da 250 mila euro.