L’indomani l’avvocato Berti, a studio sin dalle dieci del mattino, esaminò il caso giudiziario dei nuovi clienti e decise di compiere delle semplici indagini investigative.
Due ore dopo, a mezzogiorno, uscì dall’ufficio legale, lasciò Roma Prati e raggiunse con la linea A il quartiere romano di Ottaviano, scendendo dalla metropolitana alla sua fermata e indirizzandosi sulla via Palestina, giungendovi in soli undici minuti, alzando passo dopo passo gli occhi a scrutare lungo la via i civici dei negozi e degli immobili, prima trentanove, trentasette, trentatrè, fino al civico sette.
Salì al terzo piano di un vecchio stabile dallo stile neoclassico e pigiò il campanello; era l’interno due.
Un minuto di attesa e nessuno rispose; risuonò al campanello attendendo ancora un altro minuto, fin quando desistette dall’attesa.
Era probabile che nessuno fosse dentro l’appartamento, forse il fratello del cliente era andato via; mentre si girò per condursi sulle scale, Fabrizio vide salire una donna con la spesa in mano, che indossava il tipico abito islamico, col viso coperto dal velo e con due occhi scuri, penetranti e misteriosi.
Era Safyra, una delle due mogli di Marwan Al Said, la più giovane ed al suo seguito, la quale, dopo che l’uomo si presentò, alla domanda se conoscesse tale Safyra, rispose di sì.
Era lei, al momento però non poteva riceverlo in casa perché la donna era sola.
Il cognato era fuori città con la moglie, la fida Soraya; anche il figlio della donna, Muhammad Ben Al Said, un giovane di appena diciotto anni, era andato via con i parenti.
Fabrizio Berti insistette di volerle parlare, dicendole che era il difensore del marito e aveva la necessità di conferire.
Adesso e non più tardi.
La donna guardò nello sguardo profondo dell’uomo e istintivamente lo fece accomodare in casa, consapevole di contravvenire a una regola del Corano di incontrare nella sua dimora un uomo che non fosse suo marito, senza la presenza di quest’ultimo o di un parente maschio, ma sicura della lealtà del giovane occidentale, che lesse negli occhi dell’avvocato.
La conversazione fu breve e gradevole.
La donna, libera del suo velo, si mosse in casa con grazia e discrezione, e offrì al giovane avvocato un tè alla menta, servito in una teiera antica in stile arabo e d’argento, che preparò con movimenti rapidi e gentili; dopo aver servito la bevanda calda su un tavolo nel salotto, dove poggiò la teiera, confidò di essere preoccupata per la sorte del marito e della sua famiglia, puntualizzando di non fidarsi di nessuno e di non credere nella giustizia italiana.
L’avvocato replicò che il suo uomo era da lui assistito con correttezza e professionalità, ma la donna, decisa e aprendosi al dialogo, ribadì ansiosa e piena di paura di sentirsi sola a Roma, città a lei ostile e straniera; aggiunse anche che Muhammad era il suo unico figlio, da lei partorito all’età di quindici anni e che Allàh, Ar Rahmàn, il Dio Misericordioso e Compassionevole, avrebbe dovuto proteggerlo e salvarlo.
Poi prese una borsa in pelle di cammello e la consegnò all’uomo, il quale le ebbe a chiedere i documenti dell’attività commerciale svolta in Italia dal marito.
Disse anche di non dire ad alcuno che lei personalmente gli aveva consegnato la borsetta e, se eventualmente richiesto, di riferire che il giovane avvocato fosse passato da quell’interno, aveva suonato all’uscio dell’appartamento, nessuno era in casa ed aveva lasciato una lettera con carta intestata nella quale chiedeva ai parenti dell’assistito di recapitargli urgentemente allo studio di via Cicerone i documenti fiscali, contabili e personali del cliente Marwan Al Said, che comprovavano lo svolgimento dell’attività commerciale di questi in Italia.
L’uomo comprese le preoccupazioni della donna e annuì, come se tra i due si fosse instaurata un’implicita ma gradevole complicità, anche se non capì perché lei fosse più preoccupata per il figlio e poco per il marito.
Forse Safyra desiderava che il ragazzo non soffrisse per il destino del padre, subendone le sorti.
In fondo Fabrizio conosceva e rispettava le usanze e le tradizioni dei musulmani.
Salutò, augurandosi un arrivederci e lei rispose con il saluto in lingua araba Al Salam, che il giovane colse come segno di andare in pace, protetto da Allàh, l’Unico e Vero Dio.
Poi, lasciò la casa, frenetico e impaziente di esaminare il carteggio presso il suo studio, che raggiunse velocemente in un quarto d’ora; lì, visionò immediatamente i documenti con perizia certosina, esaminando le bolle di accompagnamento, i contratti di nolo con le compagnie navali e persino le ricevute di pagamento delle tasse doganali e portuali.
Ogni cosa corrispose e riscontrò quanto detto dal cliente.
Persino le quantità di detersivi da esportare in nord Africa erano indicate in quei documenti, riferibili alla Resort&Vesuviana, una s.p.a. con sede legale in Lussemburgo e base operativa a Napoli.
“Hurrà” gridò, con un sussulto, balzando quasi fuori dalla poltrona presidenziale.
L’avvocato avrebbe presentato al tribunale del riesame romano una memoria difensiva con gli allegati documenti e schiacciato la tesi accusatoria della procura della repubblica romana, che aveva suscitato l’allarme sociale in ogni parte d’Europa.
Quei documenti erano stati provvidenziali ed i clienti si erano rivelati anche buoni: Fabrizio, all’interno della borsa, trovò in contanti cinquantamila dollari in banconote da cento, i quali erano certamente il pagamento della parcella, e forse in acconto.
L’avvocato Fabrizio Berti preparò una lunga e minuziosa memoria difensiva con gli allegati che dimostravano l’attività lecita degli assistiti.
L’udienza camerale al tribunale del riesame era stata fissata il tredici del mese corrente e quel mattino giunse.
I cinque giorni precedenti all’udienza camerale erano stati frenetici e pieni di impegni per l’avvocato e il suo staff di giovani penalisti.
L’esperto e fedele collaboratore di studio, dottor Vincenzo Romano, laureato all’università La Sapienza con il massimo dei voti e con lode, era stato inviato di corsa a Napoli ed aveva estratto le visure camerali della Resort&Vesuviana S.p.A, era entrato in possesso degli attestati del pubblico registro automobilistico della città partenopea, a prova che gli autocarri addetti al trasporto di detersivi fossero di proprietà della società vesuviana che operava a Napoli da più di vent’anni, e aveva acquisito le complete generalità, con i casellari giudiziali e i carichi pendenti dei camionisti italiani, regolarmente muniti di patente C e D, assunti da anni con il contratto di lavoro a tempo indeterminato.
A Roma, l’avvocato Berti aveva dato un incarico a tre consulenti di parte della difesa, uno era un dipendente del consolato del Marocco, gli altri due impiegati governativi dell’ambasciata egiziana e saudita nella capitale, che con perizia giurata e certosina tradussero i contenuti delle intercettazioni ambientali depositati in atti, giungendo alle conclusioni che i camion partiti per la “destinazione Roma” erano quelli della società Resort&Vesuviana, condotti realmente dai dipendenti della società proprietaria; altresì, essi erano carichi di detersivi di buona qualità e non di un potente esplosivo.
Venne il giorno del riesame ed il clamore mediatico era incessante.
Non appena l’udienza fu chiamata, l’avvocato e i due procuratori della repubblica romana presero posto dinanzi al pretorio del tribunale della libertà, scambiandosi un freddo, timido ma professionale saluto, anche se Lorella mostrò un inedito nervosismo e si preoccupò istintivamente di non avere curato il trucco al viso come ogni mattina; probabilmente Fabrizio l’avrebbe giudicata e pensato che iniziasse a lasciarsi andare, quando invece lei aveva solo un interesse, quello di chiudere con un giudicato cautelare il procedimento penale pendente.
Fabrizio intanto si sedette di fronte al collegio, alla sinistra del presidente, con l’atteggiamento simile a un vulcano pronto ad esplodere, ma si trattenne anche dall’esprimere il minimo gesto di disappunto, aspettando l’iniziativa e la discussione della controparte processuale.
Il presidente Amato si aggiustò con una mano gli occhiali quadrati che gli scendevano dal corposo naso, verificò la regolare presenza delle parti processuali, delle notifiche e del deposito degli atti del fascicolo del pubblico ministero e del giudice delle indagini presso la sua cancelleria; un minuto dopo ordinò alla polizia penitenziaria di introdurre uno ad uno i nove indagati in custodia cautelare accusati di associazione eversiva finalizzata al terrorismo internazionale e di tentata strage, punibili con pene dure e rigorose.
Preliminarmente, l’avvocato Berti nulla eccepì; chiese e ottenne però dal presidente del tribunale che i clienti assistessero all’udienza camerale che li riguardava liberi nella persona, senza le catene ai polsi, e depositò avanti il collegio cinque copie della sua memoria difensiva, una per ognuno dei tre membri del tribunale della libertà, e due copie per i giudici pubblici ministeri presenti in aula.
“La discussione è aperta”, precisò il dottor Amato.
L’ufficio della procura non chiese alcun breve termine per l’esame, e stranamente visionò a mala pena la memoria e gli allegati depositati dal difensore, sostenendo, con la voce di Dario Gaymonat, l’irritualità delle perizie giurate dei tre consulenti tecnici della difesa, l’irrilevanza dell’accertamento difensivo che i camion fossero di proprietà di una società italiana, condotti da onesti cittadini italiani muniti di regolare patente di guida e dipendenti di quella società da diversi anni.
Il presidente ammise le produzioni e passò al merito dei fatti in contestazione; diede infine la parola ai procuratori della repubblica.
La dottoressa Alfieri, dopo un breve cenno al collega che le diede conferma di relazionare per prima la tesi dell’ufficio requirente, perorò veementemente l’accusa, illustrando al tribunale del riesame l’imponente materiale indiziario contenuto nel fascicolo processuale del pubblico ministero, sostenendo che l’attività di import-export dei prodotti biologici e chimici, svolta dagli indagati e citata nella memoria difensiva, in realtà fosse una copertura e l’alibi dei terroristi, precostituiti alla preparazione di un attentato nell’ambasciata americana di via Veneto, in Roma.
“Le odierne produzioni documentali non scalfiscono minimamente il castello accusatorio, anzi avvalorano la fine e subdola tesi della programmazione ed esecuzione del disegno criminoso di colpire gli interessi americani in Italia”, osservò.
“Diversamente – osservò accalorata l’affascinante giudice -, non si comprende come i nove indagati, provenienti da paesi islamici diversi, nelle conversazioni captate facciano riferimento all’ambasciatore americano che non ha nulla a che fare con l’espletamento della loro attività commerciale”
La giudice concluse:
“Chiedo il rigetto delle doglienze difensive e delle istanze di scarcerazione presentate dal difensore, perché non sono provate, e sono infondate in fatto e in diritto”.
Il presidente del tribunale, concesse una breve pausa, visionò gli allegati e la memoria, e si consultò più volte con i due giudici a latere.
Diede poi la parola al procuratore capo, domandandogli di pronunciarsi circa le conclusioni dell’incarico conferito ai suoi periti traduttori di parte, e chiedendo se la procura della repubblica avesse eventuali, ulteriori atti da depositare, fino a quel momento coperti dal segreto istruttorio.
Il dottor Gaymonat, nervosissimo, iniziò a sudare, fino a balbettare, anticipando le sue conclusioni con i “se” e i “ma” che ne minavano quasi la sintassi e il lessico della grammatica italiana.
Riferì, rispondendo con onestà intellettuale ai chiarimenti del presidente che, in effetti, come sostenuto nella memoria di controparte, era vero che i suoi traduttori fossero funzionari iraniani alle dipendenze delle intelligence italiane, in contatto con i servizi di sicurezza nazionale, ma il castello accusatorio non era scalfito dalla tesi difensiva perché la fonte confidenziale, ancor prima dell’inizio delle intercettazioni ambientali, aveva collaborato con la giustizia e denunciato all’autorità giudiziaria l’ideazione dell’attentato contro l’ambasciata americana in Italia.
“Tale fonte confidenziale trova riscontro in un’intercettazione, ove lo stesso indagato Al Said informa il suo interlocutore della circostanza che i camion sarebbero stati imbarcati dal portellone non appena fosse arrivato l’ambasciatore americano.
E’ evidente – osservò il procuratore – che tra l’indagato Marwan Al Said e l’uomo sconosciuto nella conversazione intercettata sia stato utilizzato il linguaggio criptico che dava l’inizio alla fase esecutiva della missione di morte: non appena fosse arrivato l’ambasciatore americano, evidentemente nella nota sede diplomatica di Roma, in via Veneto, i camion ne avrebbero sfondato i cancelli esterni e si sarebbero fatti esplodere all’interno della dimora diplomatica, scatenando l’inferno”.
Concluse sicuro, riprendendosi dall’iniziale emozione e dalla tensione mostrata innanzi al collegio – nonostante i trentadue anni di servizio in magistratura – facendo proprie le richieste conclusive della collega e perorò, con la voce forte e decisa, il rigetto delle istanze di scarcerazioni per tutti gli indagati.
Il presidente invitò il difensore alla discussione finale.
Prese la parola l’avvocato Berti, deciso a sostenere la sua tesi, puntando diritto lo sguardo ora sui giudici del collegio ora sul procuratore capo e sul viso della dottoressa Alfieri: li guardò negli occhi, reiterando le richieste precedentemente inoltrate.
Infine, rappresentò con lucidità oggettiva le prove documentali offerte e le falle dell’accusa.
L’avvocato, come un giocoliere avvezzo a sostenere i suoi strumenti, osservò infine che il materiale indiziario in atti si prestava a delle chiavi di lettura diverse e conduceva oltre ogni ragionevole dubbio a soluzioni diametralmente opposte da quelle che erano state paventate dai giudici requirenti.
Disse Fabrizio:
“Se l’accusa fosse stata serena nella raccolta degli indizi a carico degli extracomunitari indagati ed avesse vagliato con il rigore critico le dichiarazioni della fonte confidenziale, di certo si sarebbe accertata tempestivamente di essere stata beffata dal loro stesso confidente, iscritto dagli inquirenti subito dopo la fuga nel registro degli indagati, con la grave accusa di calunnia contro ignoti.
Le perquisizioni domiciliari degli indagati – continuò – sono state negative e alcun corpo di reato è stato rinvenuto nelle loro abitazioni; poi, nessuna collusione emerge tra i titolari della società di trasporto di Napoli e gli autotrasportatori da un lato, ed i presunti appartenenti alla cellula terroristica.
Di contro, ogni elemento raccolto dalla difesa prova con documenti incontrovertibili non solo la liceità dei negozi giuridici conclusi dagli odierni indagati con la società commerciale napoletana ma anche la buona fede dei cittadini italiani direttamente coinvolti nelle indagini”.
L’avvocato, nella sua arringa, sfogliò uno a uno i documenti prodotti, illustrandoli verbalmente al collegio.
Dopo, con le carte in mano e ad effetto, si dilungò sui fatti prodromi all’attentato: alcun esplosivo era trasportato dai camion.
“Signori giudici, è dimostrato che gli autocarri, dalla città campana di Nola al porto marittimo di Anzio, trasportavano del comunissimo detersivo prodotto da una società italiana e diretto all’imbarco nel porto laziale con destinazione Agadir, sulla costa dell’Oceano Atlantico”.
Il presidente del collegio volse lo sguardo nuovamente a destra ed a sinistra, bisbigliando le sue confidenziali osservazioni e intuizioni ai giudici a latere, e l’avvocato Berti, nella sua arringa, puntualizzò che l’indagato Marwan Al Said certamente non era un esperto di marineria: nella conversazione incriminata, difatti, usava impropriamente il participio “arrivato” e non quello relativo al verbo “ormeggiare”.
Trionfante sull’accusa, il difensore concluse:
“Il linguaggio usato dall’indagato egiziano con il collaboratore non identificato è semplice, lineare, e si presta ad una chiave di lettura connotata da una coerenza interna, dai riscontri esterni e individualizzanti che ne rendevano possibile l’interpretazione autentica.
Quando l’ambasciatore americano sarà ormeggiato i camion inizieranno l’imbarco, dopo l’apertura del portellone della nave.
Ebbene, onorevoli giudici.
Mi scuso di non avere allegato alla mia memoria difensiva un certificato della capitaneria di porto di Anzio dove è indicata la data di arrivo e di partenza della nave cargo “Ambassador”, battente bandiera a stelle e strisce.
La produco, chiedendo che si dia atto nel verbale d’udienza che il documento depositato consta di un originale, rilasciato in mattinata, solo in data odierna, dall’ufficiale d’ispezione di giornata dell’ufficio tecnico della guardia costiera territorialmente competente, e controfirmata dal capitano di vascello, comandante Giovanni Stella”.
Il collegio e i procuratori ammutolirono dentro i pensieri ed il difensore girò la faccia rivolgendosi verso il collega di studio Vincenzo Romano, strizzandogli con mestiere e discrezione l’occhio sinistro, elargendogli un sorriso.
Il presidente Amato tossì, come se quegli indizi d’innocenza prodotti dall’avvocato gli andassero di traverso.
Girò nuovamente il capo a destra e a sinistra, riaggiustandosi con la mano gli occhiali, valutando con domande brevi, a voce bassa e greve, le osservazioni ed il parere dei due componenti il collegio, infine acquisì la documentazione pubblica; la dottoressa Alfieri, nel frattempo, si avvicinò al procuratore, bisbigliandogli nell’orecchio.
Gaymonat, sentita la collega, riprese la parola e si oppose alla produzione difensiva, ritenuta intempestiva e costituente un atto processuale a sorpresa; chiese subito al presidente del riesame di verbalizzare la sua opposizione, domandando sconcertato la trasmissione degli atti al locale consiglio di disciplina distrettuale degli avvocati contro il legale Fabrizio Berti per violazione degli obblighi deontologici di lealtà e correttezza, “per avere presentato un atto a sorpresa e intempestivo”.
Lo scontro dei due uomini fu frontale, titanico.
Apparve chiaro che la posta in gioco fosse alta.
Il presidente intuì che l’aria tra i due magistrati requirenti e il difensore fosse tesa.
Cercò dunque di stemperare l’animo del procuratore, compulsato dalla collega stizzita che però non trovò il coraggio di scagliarsi personalmente contro l’ex convivente: il procuratore glielo avrebbe permesso ed il presidente avrebbe avuto poca forza a trattenerla.
Dario insistette nel verbalizzare l’opposizione e la sua richiesta di trasmissione degli atti al consiglio dell’ordine.
Sereno e imparziale, sicuro della sua decisione, il presidente si rivolse al suo cancelliere, la signora Gabriella Palazzo, alla quale tremò la mano destra per la tensione del momento, e le dettò a verbale:
“La produzione difensiva è ammessa.
Ordino altresì la trasmissione del verbale al competente consiglio di disciplina per le opportune ed eventuali valutazioni”.
Istintivamente, ironico riprese la parola Fabrizio Berti e, come un fiume in piena, si associò alla richiesta del procuratore, cogliendo di sorpresa i presenti, chiedendo al giudice di merito di trasmettere il medesimo verbale anche al presidente della corte di appello di Roma e al procuratore generale presso la stessa corte e al Consiglio superiore della magistratura per valutare la gravità dell’omissione di deposito in quel procedimento dell’iscrizione di notizia di reato della fonte confidenziale, al fine di valutare se il comportamento procedurale tenuto dal magistrato inquirente durante le indagini fosse stato legittimo o se fossero state commesse delle omissioni per la grave incompetenza e l’inadempimento.
Oramai era un fatto notorio nei corridoi della procura la precipitosa fuga del principale accusatore degli arrestati.
Il presidente, con la sua voce squillante, richiamò le parti all’ordine, dicendo forte “adesso basta”, ammonendoli ad essere sereni e di contenersi
Dopo, invitò con voce più quieta e bonaria l’avvocato a desistere dalla sua richiesta che fu prontamente ma a malincuore ritirata dall’acceso difensore, con sollievo del procuratore che intanto si asciugò la fronte dal sudore, scusandosi per il caldo che sentiva, ammutolendosi però quando l’avvocato Berti, impudentemente e sarcastico, si rivolse nuovamente al collegio, domandando al presidente del tribunale se quel giorno non fosse il tredici dicembre di un inverno rigido e freddo.
Il presidente sorrise dentro di sé digrignando e spalancando gli occhi cerulei e tondi, e colse l’ironia del difensore, rivolta contro il dottor Gaymonat, però ammonì subito le parti ad un maggiore autocontrollo e alla disciplina durante l’udienza camerale.
Chiuse il verbale alle ore undici e comunicò alle parti processuali di riservarsi per la decisione, indicando le ore ventuno per la lettura del dispositivo.
“L’udienza è tolta”, disse con voce liberatoria, alzandosi di scatto e portandosi veloce con gli altri giudici nella camera di consiglio che stava di spalle al pretorio.
Immediatamente, i procuratori e i difensori abbandonarono l’aula senza alcun saluto, con Lorella stizzita che in corridoio trovò il coraggio di gridare a Fabrizio “sei un presuntuoso e un arrogante”.
Il giovane non le volle replicare, tanto era il rispetto e l’affetto che portava alla ragazza; contrito, si diresse verso l’uscita del palazzo, accompagnato dal suo collaboratore.
Erano le undici e ventisette antimeridiane.
Dopo, la breve pausa, il collegio iniziò a esaminare minuziosamente il materiale probatorio a carico degli indagati, consultandosi ciascun giudice con gli altri componenti del tribunale su ogni questione di fatto e di diritto, con il certosino puntiglio ed il rigore nell’analisi degli indizi.
Alla fine, dopo ore e ore di intenso lavoro, il collegio formò il proprio convincimento ed era pronto per la lettura della decisione, poiché convenne con la procura della repubblica che effettivamente vi fossero degli indizi di colpevolezza, quali la fonte confidenziale, sia pure iscritta sul registro notizie di reati per calunnia contro ignoti e non scalfita da alcuna offesa precostituita contro gli indagati; pertanto, non era dato loro conoscere il contenuto delle ulteriori dichiarazioni e delle carte processuali da considerarsi neutrali rispetto a quelle rese ed in atti.
Per il collegio il linguaggio adottato nelle conversazioni telefoniche e ambientali, come precisato anche dallo stesso legale, si prestava a essere interpretato secondo le diverse chiavi di lettura, dunque anche contra reum.
Infine, il tenore di vita, le singole disponibilità economiche di ciascun indagato, i passaggi di denaro nelle transazioni negoziali che erano veicolati in conti esteri non conducevano solo ai pagamenti delle operazioni di import ed export delle società, ma a conti svizzeri del medico egiziano, cifrati e coperti dal segreto bancario di quel Paese, sia pure senza le prove di illiceità penale.
Ciò nonostante, allo stato, la memoria difensiva dell’avvocato Berti ed i documenti in essa allegati avevano demolito e frantumato decisamente la tesi investigativa dell’attentato all’ambasciatore statunitense presso la sede diplomatica romana di via Veneto.
I camion indicati dalla procura, da servire ai kamikaze come autocarri-bombe, erano diretti all’imbarco nel porto marittimo di Anzio e non erano mai stati, né stavano per esserlo, nella disponibilità materiale degli indagati.
Poi, l’errore di traduzione degli interpreti d’origine iraniana dell’ufficio del pubblico ministero era stato macroscopico nel ritenere materiale esplosivo del comunissimo detersivo: tre perizie giurate, di tecnici di comprovata esperienza e professionalità, come da note personali rilasciate dalle rispettive sedi diplomatiche di Stati amici e prodotte dalla difesa, lo certificavano oltre ogni dubbio.
I tre magistrati giudicanti, dopo più di nove lunghe ed estenuanti ore di camera di consiglio, furono pronti per comunicare il verdetto finale.
Alle ventuno squillò il telefonino dell’avvocato.
La signora Gabriella Palazzo della cancelleria del riesame avvisò Fabrizio Berti che di lì a mezz’ora, esattamente alle ventuno e trenta, il collegio usciva dalla camera di consiglio per la lettura del dispositivo.
Lo informò anche che i due magistrati della procura erano presenti a palazzo e facevano anticamera dietro la porta dei giudici da almeno un’ora.
Furono le ventuno e trenta.
Puntuale, il collegio uscì dalla camera di consiglio e si pronunciò, leggendo il dispositivo.
Il Presidente lesse l’ordinanza in nome del tribunale della libertà di Roma, sentenziando che gli indagati erano stati raggiunti da indizi di colpevolezza ritenuti però non gravi ed univoci, peraltro affievoliti dalle decisive produzioni documentali.
Ordinò, con sorpresa di tutti i presenti, la loro remissione in libertà, se non detenuti per altra causa.
Alla lettura dell’ordinanza di revoca delle misure cautelari in carcere Lorella sbiancò, e anche la faccia del procuratore si fece scura quanto un’eclissi.
L’avvocato invece si trattenne dal mostrare segni di vittoria. Di buon passo e signorile, salutò i giudici collegiali, ossequiandoli con un cenno del capo ed un sorriso, augurando a Lorella una buona serata, lasciando poi l’aula prima che lei potesse rispondergli alcunché o apostrofarlo di scorrettezze e mandarlo a quel paese.
L’avvocato Berti lasciò i corridoi del palazzo di giustizia e si diresse verso l’uscita.
Giunto vicino la scalinata esterna del maestoso tribunale, salutò il collaboratore di studio e si intrattenne all’uscita, guardando lontano, verso la strada principale.
Il traffico cittadino scorreva veloce come ogni sera, il cielo minacciava la pioggia e il freddo era intenso, inusuale al clima austero e mite di Roma.
Guardò ancora in avanti, ma il suo pensiero lo portò a considerare la questione morale se fosse nel giusto avere difeso Marwan Al Said e i suoi scagnozzi fondamentalisti, seppure ci fosse una forte presunzione d’innocenza.
“Per cosa”, si domandò, quasi sgomento.
Decise di tornarsene a casa, sicuro di avere svolto bene il suo mandato difensivo, però iniziò ad assalirlo la sensazione strana, che lo avvinse sempre più, di sentirsi un difensore vinto e non il vincitore.
Sciolse il dubbio.
Si sentì un uomo solo, e lentamente si incamminò.