Gela. Un lungo trascorso fatto di violenze e soprusi. I pm della Dda di Caltanissetta contestano anche l’aggravante mafiosa, che ha portato la vicenda processuale davanti al collegio penale del tribunale, presieduto dal giudice Miriam D’Amore. Fu una quarantenne, moglie del cinquantaduenne Emanuele Napolitano, a denunciare quanto subito. Minacce, violenze, abusi e vessazioni continue. “Non potevo uscire di casa – ha spiegato in videocollegamento da una località segreta – anche quando mio marito era in carcere le minacce proseguivano durante i colloqui. Quando ci trasferimmo a Gela, per me era impossibile avere qualsiasi relazione sociale. Mi chiudeva in casa e non potevo rispondere a nessuno. Se avevo esigenza di uscire, potevo farlo solo in compagnia dei suoi familiari”. Napolitano, che ha precedenti ed è stato condannato in inchieste antimafia incentrate sul gruppo di Cosa nostra della zona del varesotto, è a processo, insieme alla madre e alle due sorelle. Anche loro, secondo le contestazioni, sapevano quello che accadeva alla donna. Le violenze, in base a quello che ha raccontato anche agli investigatori, non si sarebbero fermate neanche in presenza della figlia. La quarantenne, che è parte civile, insieme all’associazione “Libera”, con il legale Vincenza Rando, dopo anni di violenze si rivolse ai magistrati e alle forze dell’ordine. Da allora, vive in strutture protette. Ha risposto alle domande del pm Dda Stefano Strino e dei legali di tutti gli imputati, gli avvocati Monia Giambarresi, Gaetano Carluzzo e Domenico Margariti.
“Quando ritornammo a Busto Arsizio – ha continuato – la situazione non cambiò anche se avevo maggiore possibilità di uscire. Lui si muoveva con persone che facevano estorsioni e illeciti”. Il procedimento è arrivato davanti al collegio penale dopo che i giudici milanesi si pronunciarono sulla competenza territoriale. Gli imputati invece escludono che quanto raccontato dalla donna abbia avuto riscontri concreti. L’attività istruttoria proseguirà nel corso delle prossime udienze.