La sala di attesa degli avvocati della casa circondariale di Roma Rebibbia era vicina a quella dei magistrati, nella quale si sarebbero svolti gli interrogatori di garanzia dei fondamentalisti islamici, accusati di associazione a delinquere finalizzata al terrorismo e al tentativo di strage.
Dentro vi era un’ampia e lunga scrivania, priva di oggetti contundenti o appuntiti.
L’ispettore di polizia penitenziaria preposto al servizio presso quella sala magistrati la chiamava in gergo la “gogna”, la stanza del confessionale ove agli indagati in stato di interrogatorio conveniva confessare e vuotare il sacco per non marcire nella prigione.
L’ispettore rimase dietro la sua scrivania, nell’anticamera della sala riservata ai magistrati, quando l’avvocato Berti entrò nell’ufficio all’interno dell’istituto penitenziario per riferire che lui era il difensore degli indagati che, di lì a pochi minuti, alle ore nove e seguenti del mattino, sarebbero stati interrogati dal magistrato procedente.
“Qui sono entrati molti avvocati eleganti, ma non ne ricordo uno che usasse un profumo con una tale fragranza”, disse il sottufficiale di servizio, per attaccare corda e pensando di fare un’osservazione intelligente al referente mattutino.
Fabrizio Berti intuì che l’ispettore si riferiva al suo profumo Dolce & Gabbana, ma con lo stile di sempre non volle infierire sull’invadenza della guardia carceraria, che nulla aveva a che vedere con i signori ufficiali della matricola, che salutò senza replicare e con una fortissima stretta di mano, come a sfidarlo implicitamente e dimostrargli chi dei due fosse il più sveglio.
L’ispettore annuì, accennando un saluto che sapeva di nicotina e catrame, tossendo leggermente, abbassando gli occhi sul polso sinistro del legale, il quale indossava il suo orologio rolex day date, dal quadrante bianco e con il cinturino d’oro.
L’avvocato Berti distolse gli occhi per non vedere il sorriso e i colpi di tosse dell’interlocutore; comprese immediatamente che l’ispettore fosse anche un uomo venale, e che lo stesso si fosse accorto del suo disgusto contro l’invadente secondino.
“Può accompagnarmi nella sala degli interrogatori”, gli ordinò.
“Ho delle carte da sistemare, e fra alcuni minuti i magistrati romani entreranno in quest’ala dell’istituto; poc’anzi li ho visti al bar del complesso penitenziario, a consumare il caffè espresso”.
L’ispettore si tese verso l’avvocato e indicò la strada, facendolo accomodare, mentre udì sopraggiungere i giudici, accompagnati dal direttore del carcere e da un nugolo di poliziotti che quella mattina erano in servizio straordinario.
Dall’ufficio della procura della repubblica di piazzale Clodio si erano spostati sia il procuratore capo che la dottoressa Alfieri per gli interrogatori; i loro passi veloci si fecero sempre più vicini, forti, e Fabrizio capì quanto fosse importante per i giudici requirenti acquisire dall’interrogatorio di garanzia degli indagati nuovi ed ulteriori elementi investigativi utili all’accusa.
L’aria era tesa, nonostante i pregressi, buoni rapporti professionali tra i due magistrati e il professionista: i coadiutori di cancelleria, fedeli ai giudici ed amici dell’avvocato, notarono che tutti i presenti fossero alquanto impacciati, restando muti come pesci, guardinghi però dei movimenti e delle sensazioni degli inquirenti e dell’avvocato, che apparve loro inconsuetamente più serio ma privo del suo perenne sorriso.
Lorella guardò il giovane legale con distacco, ricordandogli che lei era il magistrato e lui un avvocato; Fabrizio, per la prima volta da quanto era il compagno di vita di Lorella, si sentì l’anima in conflitto con la sua donna, orgoglioso però di essere un avvocato, garante dei diritti costituzionali di qualsiasi cittadino o straniero, presunto innocente fino a che non fosse stato giudicato e condannato.
Immediatamente i rappresentanti delle parti processuali, dopo essersi sistemati, videro entrare nell’aula uno degli indagati, tradotto da un nugolo di poliziotti penitenziari, che fu fatto accomodare ammanettato nella saletta; il magistrato procedente, dopo averlo informato dei suoi diritti di difesa, riferì all’arrestato che aveva l’obbligo di dire la verità sulle proprie esatte generalità, sui carichi pendenti nel territorio italiano, sulle sue condizioni economiche e personali.
L’indagato, al quale furono tolte le catene per espressa richiesta del legale e con disappunto del procuratore, prima che egli rispondesse alle domande sulle accuse, come se fosse in un’osmosi con il difensore, rispose senza esitare a quanto chiestogli e, infine, alla richiesta del giudice delle indagini preliminari se volesse rispondere o no, comunicò di avvalersi della facoltà di non rispondere.
All’unisono, negli interrogatori successivi, anche tutti gli altri indagati, come se avessero ricevuto un ordine superiore, si avvalsero della stessa facoltà, tanto da suscitare lo sgomento nei magistrati requirenti e nel giudicante, i quali non si aspettavano l’esercizio di tale diritto da parte di tutti gli indagati; i giudici sarebbero stati pertanto impossibilitati ad utilizzare contro i medesimi le eventuali dichiarazioni che gli stessi potevano rendere.
Di stizza, Lorella fece notare al suo capo che, in realtà, la strategia difensiva di tutti gli accusati fosse stata dettata dal loro difensore, il quale, a dire di lei, con la violazione dell’obbligo di non conferire con i propri assistiti prima del reso interrogatorio, ad ogni detenuto ricordò avanti i magistrati la circostanza che l’indagato poteva avvalersi della facoltà di legge, così come poco prima riferitogli dal giudice delle indagini preliminari, il quale aveva rassegnato verbalmente gli avvisi, le garanzie e le facoltà spettanti all’interrogato.
“Che rabbia”, disse la sostituto al dottor Gaymonat, avvicinandosi al collega e parlandogli di spalla vicino all’orecchio, sottotono, mentre Fabrizio stava in disparte, vicino l’ingresso della sala.
“La solita perfidia degli avvocati, tesa ad avvalersi di facoltà garantiste pur di occultare la verità”, aggiunse lei decisa e con rabbia.
“Fabrizio, stuzzicandomi, in passato mi ha sempre detto che un buon avvocato deve fare al magistrato il buon viso e il cattivo gioco.
Stavolta però non la passerà liscia, perché ho intenzione di chiedere la trasmissione dei verbali di interrogatorio e delle fonoregistrazioni al consiglio degli organi di disciplina degli avvocati di Roma, per violazione della disposizione del differimento del colloquio con l’assistito.
Vedremo se il presidente dell’organo avrà il coraggio di difenderlo, e di non applicare le sanzioni disciplinari”.
Il dottor Gaymonat le replicò di calmarsi e che alcuna violazione di norme deontologiche era stata commessa dall’esperto avvocato; in ogni caso, loro avrebbero condotto le indagini senza interruzioni e raccolto le prove schiaccianti contro i colpevoli.
Gli interrogatori erano stati resi e il legale, ancora presente tra la stanza ed il lungo corridoio, sentì bisbigliare i commenti di quel dialogo, ma non volle credere alle proprie orecchie, cogliendo l’apparente indifferenza e il disprezzo della sua donna, che evitava di rivolgergli sia la parola che lo sguardo; con l’animo pronto a esplodere, aspettò il passo dei magistrati e salutò i due procuratori con freddezza, stringendo la mano solo al giudice delle indagini preliminari che li precedeva, chiedendo all’ispettore di polizia di accompagnarlo immediatamente all’uscita del braccio di sicurezza dall’istituto penitenziario, perché fuori aveva delle cose da sbrigare.
Invece il giovane, uscito del carcere, ebbe tanta rabbia in corpo e dopo essersi messo al volante della sua potente autovettura non gli restò che portarsi sul raccordo anulare che annoda la città di Roma e scaricare la tensione che aveva in corpo premendo sull’acceleratore e manovrando sul cambio manuale della potente berlina, fino a doppiare con la sua mercedes 320 common rail dell’ultima generazione i limiti di velocità autostradali, noncurante di non avere indossato la cintura di sicurezza, il cui allarme era stato disinserito.
Anche Lorella, per lui, aveva oltrepassato i limiti: “a casa ne pagherà seriamente le conseguenze”, pensò l’avvocato.
La sua donna lo aveva deluso, borbottò in sé il giovane difensore con l’animo tagliente.
L’accaduto era stato di un’estrema gravità.
La convivente lo accusava di collusione con gli stranieri e minacciava la trasmissione degli atti al consiglio di disciplina del distretto degli avvocati di Roma per richiedergli contro l’applicazione delle sanzioni disciplinari.
Non era stata leale nei confronti suoi e anche della professione forense, puntando l’indice su fatti non veri.
“Accusandomi poi avanti al procuratore capo.
Stasera faremo i conti e dormirai sul divano”, continuò furente a borbottare il conducente, che intanto superò di novanta chilometri orari il limite di 130 di velocità, segnato dal raccordo anulare dell’autostrada verso la capitale, come se le stesse parlando mentre lei gli fosse seduta accanto nel sedile anteriore a lato del conducente.
“Io sono un pazzo a continuare a starle dietro.
E’ fuori di testa. Il lavoro le sta divorando le sue energie e la freschezza; prima o poi lo stress la ucciderà…
Ma no. Stasera vedrò di discuterle, di convincerla a essere più serena.
La verità è che io l’amo”, replicò a sé l’uomo, togliendo il piede destro dall’acceleratore, rallentando quasi ai limiti consentiti dal codice della strada, inconsciamente come se volesse evitare ulteriori danni e pericoli.
Era la prima volta, da diversi mesi, che Fabrizio ammetteva a se stesso di amarla più di ogni cosa, e nemmeno si era accorto di essere solo, di parlare a gran voce dentro la sua autovettura, come se lei continuasse a stargli vicino.
Lorella, invece, lasciato il carcere con i suoi colleghi e la scorta, prevedeva giorni tristi e il lutto in casa:
“Fabrizio non cambierà atteggiamento e non rinuncerà al suo mandato difensivo”, pensò.
Il dardo è tratto.
Seduta sull’autovettura di servizio, all’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, meditò di cambiare casa, di prendere in affitto un bilocale arredato vicino al tribunale.
Forse, stare lontano al suo uomo le avrebbe fatto del bene.
Il dottore Gaymonat di quell’appartamentino gliene aveva parlato proprio quella mattina, durante il tragitto dal palazzo di giustizia alla casa circondariale romana, quasi a presagire i dissensi tra la collega e Fabrizio; l’uomo pensò che l’occasione fosse stata provvidenziale ed imminente la rottura tra la collega ed il compagno.
E’assurdo, Dario”; sbottò la donna.
“E’ una questione personale, tra me e lui.
Se Fabrizio è il difensore di quei miserabili terroristi e io la contitolare delle indagini dell’accusa, c’è un conflitto di interessi”, obiettò.
“Accidenti, avrebbe dovuto pensarci prima di assumere quella maledetta difesa.
Credimi: se l’avvocato Berti persisterà nel suo mandato difensivo, lo ridicolizzerò, professionalmente e umanamente.
Sono certa di quello che dico e, per Dio, lo farò”, ribadì decisa e fuori di sé, per l’incoscienza del compagno a non avvedersi di cosa fosse in gioco.
“Hai visto, la nostra indagine è stata apprezzata dal primo ministro in persona e dalla first lady.
L’opinione pubblica è con noi, Dario; nei talk show si parlerà ancora degli arresti dei terroristi islamici e dei brillanti risultati operativi. .
E io sarò presente. Fabrizio pensi quel che vorrà; lui non capisce, ma questa è la nostra occasione”.
“E’ la nostra occasione”, replicò il procuratore, sentendosi per la prima volta succube delle decisioni della collega, anche se in cuor suo era consapevole che l’avvocato Berti stesse esercitando il sacrosanto diritto costituzionale di difendere gli indagati, pena la virtuale trasmissione degli atti processuali alla procura della repubblica contro il difensore d’ufficio per abbandono di difesa, interruzione di pubblico servizio, con la possibile sospensione o la radiazione dall’albo degli avvocati.
Lui non finì di replicare, comunicando verbalmente alla sostituto procuratore il suo pensiero sull’argomento, che Lorella gli puntò lo sguardo fisso, freddamente, sprigionando gli occhi della ragazza il fuoco di sempre, come se fosse diretto questa volta ad incendiare il compagno di vita che, nel frattempo, era rientrato al centro percorrendo la strada lungo l’antico muro torto e giungendovi da via Veneto fino al parcheggio Ludovisi.
Lei pensò di Fabrizio come se improvvisamente fosse diventato il suo principale nemico, e le riuscì di essere fredda calcolatrice, considerandolo un estraneo, nell’indifferenza, provando la rabbia per essersi concessa a lui perdutamente, senza alcuna condizione, amandolo con tutta se stessa, con il corpo e con l’anima, giocando in amore e svelandogli i suoi segreti.
Dario sembrò sconcertato a sentire la collega che inveiva contro il legale durante il tragitto del ritorno dalla casa circondariale agli uffici della procura, incurante dei suoi pensieri e di quelli dell’autista giudiziario, però valutò i fatti e ritenne conveniente che quel rapporto d’amore, invidiato da tutti i magistrati e avvocati del distretto della corte di appello di Roma, fosse sul punto del precipizio.
Egli stimava la collega e forse provava qualcosa, non accettando neppure a se stesso che l’ammirazione professionale nascesse dal fascino della giovane collega, che era intrigante, pungente e bella.
“Ritorniamo subito in ufficio”, disse Lorella al procuratore; questi ordinò all’autista di accelerare, di dirigersi subito verso il centro della città, chiedendogli dopo di fermarsi poco distante dal tribunale, quasi a sgranchire le gambe.
La donna sbuffò; le era passata la voglia di ritornare a tuffarsi nel suo lavoro e comunicò che voleva fare due passi, per scaricare la tensione.
“Penso che sia meglio raggiungere il palazzo di giustizia a piedi”, osservò Lorella, convenendo di non continuare a stare seduti sull’autovettura di servizio fino all’ingresso del tribunale.
“Certo”, rispose il procuratore, scendendo dall’automobile, con uno scatto aitante che dimostrava un fisico ancora tonico, un tempo slanciato e atletico.
“Sai, mia cara, voglio confidarti che ti sono grato della collaborazione; debbo altresì riconoscere di esserti debitore per la solidarietà dimostrata alle mie vicende personali e familiari”, le confidò, anche per la voglia di cambiare l’argomento di discussione.
Dopo queste frasi che cementarono la solidarietà e gli sguardi dei due colleghi, si dissero di riderci sopra, di non pensare più agli interrogatori poco felici.
L’uomo si incamminò a passo lento verso gli uffici giudiziari e anche lei lo seguì poco distante con il passo quieto e deciso; non le importò più raggiungere immediatamente il proprio ufficio, perché colse il bisogno di Dario di staccare la spina dal lavoro, di parlare di sé e della sua famiglia.
Un’ora dopo l’arrivo in procura, alle quattordici e trenta, Dario e Lorella decisero di abbandonare i rispettivi uffici nei quali stettero appena pochi minuti; come concordato al telefono andarono a pranzare insieme in un ristorante francese di Roma sull’Appia antica, vicino il mausoleo di Cecilia Metella, liberando davanti l’ingresso del locale gli uomini della scorta, che con discrezione si tennero a distanza insieme all’autista di servizio, finalmente in franchigia dai loro impegni.
Seduti in un lussuoso tavolo a lume di candela, serviti personalmente dal maitre del rinomato locale, il quale consigliò ai gentili ospiti uno champagne francese dei castelli della Loira, Dario le domandò preoccupato se poco prima in ufficio avesse sentito Fabrizio, notando che Lorella era nervosa, forse esausta.
“Per nulla”, gli rispose la commensale.
“Non l’ho chiamato, e neppure il signorino mi ha fatto uno squillo; Fabrizio ora avrà l’aria soddisfatta di andarsene in giro per la capitale, a cercare belle donne: mi ha sempre obiettato con il suo ironico sorriso che se fosse stato libero dalla nostra relazione sentimentale non avrebbe perso tempo, anzi di corsa si sarebbe dato alla conquista di belle ragazze americane, scandinave e francesi.
E’ un uomo vanitoso, e va pazzo per le straniere.”.
“Fabrizio? Domandò Dario.
Lei acconsentì, arcuando le ciglia e non sentendosi in colpa per l’accaduto; la previsione che l’intuito femminile le suggeriva, le occultò il velo di gelosia sulle circostanze che, con controllata rabbia, rappresentò all’amico.
Dario insisteva a dirle di dimenticare quella giornata stregata, infelice anche per lui, invitandola a pensare ad altro e, subito dopo, da esigente cliente, iniziò un’amabile conversazione con il maitre, il quale offrì le liste della casa ai clienti e consigliò al tavolo una cucina raffinata, accompagnata da ostriche fresche: “Sono state pescate questa mattina nei mari della Normandia e spedite da poco all’aeroporto di Fiumicino. Ho anche degli ottimi antipasti parigini”, informò l’uomo, lasciando la carta sul tavolo e tenendosi lontano con discrezione.
“Adesso sei un po’ più tranquilla?”, le chiese Dario, guardingo nel non suscitarle contrizione, versandole nel bicchiere dell’ottimo champagne perché sapeva che le piaceva.
“Sono serena perché la rabbia è già passata”, lo rassicurò lei, poggiando diritta la sua schiena sulla sedia e le braccia sul tavolo, iniziando a gustare i prelibati antipasti a base di pesce, le creme di leggera maionese, le insalate verdi che furono serviti con celerità e che a lei piacevano da impazzire.
Anche Dario si rasserenò; in silenzio la guardò, scrutandole i lineamenti del viso, fissando i suoi occhi blu.
Pensava di lei che fosse una gran bella donna: intelligente, intrigante, di un fascino straordinario, apprezzandone molto il carattere fiero, sempre pronta a combattere per quello in cui lei credeva, anche se iniziò a considerarla una donna vulnerabile.
Da giovane Dario aveva valutato tutte le ragazze incerte e deboli; persino la figlia del presidente dell’associazione degli industriali di Roma che era una gentildonna difficile da conquistare, avvenente e di alta classe, era stata una sua preda; dopo lui l’aveva sposata.
Era un vero peccato che oramai la sua relazione coniugale fosse al capolinea: la moglie, da anni aveva una linea stanca, decadente, con l’età che le rotolava come una valanga che deforma i luoghi sottostanti, e si vedeva molto che lei gli era avanti di cinque anni, lasciandosi dietro i sessanta.
Lorella invece era giovane e bella, solare e dirompente; le sembrò anche selvaggia e indomabile.
Per la prima volta si sentì un giovincello pronto a conquistare l’affascinante collega, ma il rifiuto di lei alle sue avances lo spaventava; pensò bene di non esporsi troppo con la ragazza, la quale nel caso di diniego ai suoi slanci poteva accusarlo di avere frainteso e frustrato la loro amicizia.
Poi, in quel momento, lei era ancora legata al compagno, ed era possibile che i due giovani smussassero la lite: grande e indelebile gli appariva l’amore che la donna sentiva per il ribelle.
“Sei tranquilla perché sei giovane e forte”, le disse Dario con il tono fermo e deciso, inconsapevole dei suoi pensieri.
“E hai bisogno solo di stare con te stessa”.
L’adulò.
“Sei la migliore donna magistrato che io abbia conosciuto, e debbo confessarti che Fabrizio non sarà così pazzo da perderti.
Vedrai che lui accetterà le tue condizioni: rinuncerà ai mandati difensivi e ritornerà a te”.
“Non se sono così sicura”, obiettò lei.
“E’ fiero più di quanto lo sia io; lo conosco bene, è così cocciuto che non ritornerà sui suoi passi.
Per i propri principi e ideali, anche quelli più banali o per quelli a cui dà poca importanza, egli è pronto a sacrificare la sua vita.
E’ così, lo so”, sentenziò l’amabile conversante, assumendo un tono basso, consono al locale frequentato dalla Roma bene e dai vip della capitale di mezza età che desideravano frequentare un locale che garantisse la loro privacy.
“Vai per la tua strada, ragazza mia.
Anche tu hai delle ragioni importanti”, le rispose il collega sorseggiando lo champagne.
“E’ vero”, replicò Lorella, gustando a piccoli sorsi il suo bicchiere di champagne, bagnando le sue labbra rosse leggermente pronunciate, e scrutando con discrezione le frizzanti bollicine del vino francese nel calice.
Dario si rasserenò; l’aveva chiamata ragazza, come se ne fosse l’amico adulto o il confessore dei suoi più intimi segreti, e lei gli rispose con lo sguardo sereno, remissivo.
Il pranzo continuò accompagnato da un’intrigante conversazione e l’uomo uscendo dal ristorante, chiamò l’autista e gli uomini della scorta.
Il tragitto di ritorno verso il palazzo di giustizia richiese solo venti minuti.
Quando arrivarono, i due magistrati entrarono insieme nell’edificio, circondati dai cinque carabinieri che erano stati loro assegnati permanentemente dal ministro dell’interno sin dalla mattina nella quale era scattata l’operazione di polizia giudiziaria, i quali, con professionalità e discrezione, non lasciavano spazi a errori od occhi indiscreti.
Il capo della scorta domandò se i suoi uomini potessero allentare la sorveglianza; il procuratore rispose di sì: lo avrebbe avvisato non appena di pomeriggio lasciava l’edificio.
Lorella esitò per un attimo; si congedò con il saluto percorrendo i lunghi corridoi, ma non sapeva se portarsi presso la sua stanza o telefonare subito a Fabrizio che gli occupava la mente ed i pensieri, per chiarire ogni cosa e forse perdonargli l’atteggiamento di sfida.
Rinunciò.
Era conscia di potere contare sull’amicizia e sulla discrezione di Dario.
Testarda, impose a se stessa di non ritornare a casa e, rompendo gli indugi, decise che quello stesso pomeriggio chiamava il proprietario del bilocale arredato da affittare: “entro alcuni giorni, forse prima, mi trasferirò lì da sola, libera e indipendente, senza avere vicino un uomo al quale riferire ogni minuto dove io mi trovi, cosa io faccia o a che ora ritorno a casa”.
Erano passate poche ore, e Fabrizio già le mancava.
La decisione irrevocabile sembrò esserle un’imposizione, ma era quello che lei voleva, non le sue coccole, gli abbracci e i suoi baci che l’avevano viziata, insieme alle cene prelibate a lume di candela preparate in cucina dal suo uomo, nell’alcova del loro piano attico di piazza di Spagna, oppure le passeggiate romantiche a Roma by night, scherzando tra i cento scalini del campidoglio, a rincorrersi a mezzanotte nella piazzetta rinascimentale del municipio, mascherandosi dietro la statua imperiale di Marco Aurelio e del suo cavallo, burlandosi l’uno dell’altro, per poi ritornare tra le braccia del suo uomo ed essergli un solo respiro, poggiati sul muretto a lato della piazzetta, con lo sguardo disteso ora verso i fori imperiali e l’arco di trionfo, ora puntandolo negli occhi del partner, sussurrandogli i suoi sentimenti e le emozioni, vivendo momenti d’autentica spensieratezza e felicità.
Lorella s’impose la scelta e smise di sognare ad occhi aperti. Dominò poi i suoi ricordi: per esperienza era conscia che sarebbe sopravvissuta.
La first lady, che le era molto amica, un tempo le confidò di essere stata perdutamente innamorata di un giovane professionista meridionale, un avvenente avvocato siciliano, colto e originario della Val di Noto, e l’averlo perso le significò il tormento nell’incertezza, l’ansia e un fiume di lacrime, ma dopo pochi mesi si ritrovò, frequentando la cerchia della nobiltà romana nella quale era cresciuta, diventando la moglie di uno dei più potenti uomini politici della capitale, ora presidente dei consiglio dei ministri di una delle prime sette potenze industriali del mondo.
“Mi disse anche che sopravvivere insegna a una donna l’essere se stessa”.
Era sincera.
“Penso anch’io di sopravvivere, e un serrato confronto con Fabrizio sarà la mia forza.”
Lorella scosse la testa, ritornò sui suoi passi e abbandonò sgomenta l’ufficio giudiziario.
All’uscita invitò i militari della sicurezza a non seguirla; e si allontanò.
Fu suo desiderio restare da sola, prendendo un bus e dirigendosi verso piazza del popolo, senza alcuna meta e sospirando nei pensieri, fino a quando i negozi dell’isola pedonale di via del Babbuino non abbassarono le serrande all’imbrunire della sera, chiudendo dopo gli esercizi commerciali addobbati a festa che con i loro colori e le mille luci preannunciavano l’arrivo del Natale.
Decise dunque di entrare in una chiesetta sulla via del Corso, verso la quale si indirizzò, stupefatta di come lì riuscì subito a ritrovarsi, nonostante fuori il sacro tempio cristiano vi fossero centinaia di persone e turisti d’ogni parte della terra che, a flussi, attraversavano la strada, dirigendosi verso le chiese barocche e rinascimentali circostanti e le vicine mete turistiche di piazza di Spagna e della fontana di Trevi.
A differenza della first lady si sentì forte e non le occorsero mesi oppure anni per superare la contrizione; dubitò nemmeno un istante sulla capacità di superare quel momento nero.
Subito.
“Come donna innamorata sono disposta a perdonare, ma come giudice non tollero le posizioni di assoluto scontro con la mia dignità di magistrato”, pensò.
Ella, in passato, aveva subito ogni sorta di angherie e soprusi psicologici dal perfido Manlio, aveva conquistato a fatica la sua libertà intellettuale ed economica; ora un piccolo avvocato del profondo sud le metteva il mondo in crisi che rischiava di trascinarla in un conflitto di interessi con l’ordine giudiziario.
Lorella, seduta in chiesa sulla rigida panca, guardò avanti lungo la navata centrale e fermò la vista sull’altare di fine marmo bianco, notando le luci che lo illuminavano e i fiori che lo adornavano: questi trovavano la loro giustificazione nell’ordine del sacramento dell’eucaristia e nell’enorme cupola sovrastante.
Pensò pure che ogni luogo sacro avesse un offertorio per i sacrifici, che costringe il viandante a subire delle privazioni, ma anche il sagrato, uno spazio antistante quel luogo religioso che gode di un’immunità.
La donna sorrise di un sorriso amaro, traendo avanti quell’altare la conseguenza che si era votata ad una crociata che le richiedeva delle scelte dolorose, le quali necessariamente le imponevano il sacrificio, quello di immolare l’amore che nutriva per Fabrizio, negando a se stessa i sentimenti che albergavano nel suo io più intimo, pur di realizzare il sogno di gloria nel quale ritenne di credere ciecamente.
Decise di vivere la sua scelta, fino in fondo, al fine di dirimere il suo conflitto di interessi, imponendosi, seduta nella panca, di farsi forza e di andare avanti.
Sola, senza il suo uomo.