Gela. Le sue tracce si persero nel marzo di ventiquattro anni fa, inghiottito in uno dei tanti episodi di lupara bianca della guerra di mafia. I familiari si sono rivolti al ministero. Il corpo non venne mai ritrovato. Come emerse dai processi, però, l’allora quindicenne Marco Lorefice non era inserito in nessuno dei clan che si contendevano il territorio. Non era un affiliato a cosa nostra né, tantomeno, un esponente della stidda. Dopo le condanne inflitte a chi ordinò, e poi eseguì, la spedizione di morte ai suoi danni, la famiglia attende ancora che possa arrivare il sì al riconoscimento da parte del ministero della giustizia. A conclusione dei procedimenti penali, infatti, alla madre e ai fratelli, tutti costituiti parti civili, venne riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni e la relativa provvisionale. Per questa ragione, prima di tentare la carta del procedimento civile, gli avvocati Carmelo Tuccio e Giovanni Cannizzaro, legali della famiglia, hanno scelto di fare istanza al ministero per ottenere quanto disposto, a titolo di provvisionale, dai giudici penali.
Venne torturato in un casolare vicino Comiso. Stando agli esiti del dibattimento, la vittima sarebbe stata prelevata da un gruppo di affiliati a cosa nostra e condotta nella zona rurale di Comiso, all’interno di un casolare.Torturato per farlo parlare e, alla fine, ucciso. Il suo corpo, in base alle ricostruzioni fornite dai collaboratori di giustizia sentiti in aula, con in testa i fratelli Angelo e Luigi Celona insieme a Massimo Ferrigno, sarebbe stato abbandonato in un pozzo. Nonostante le ricerche, però, di quei resti non si è saputo più nulla.