Quando, nel 1972, Pier Paolo Pasolini accettò l’invito a collaborare con il “Corriere della sera” diretto dal liberale Piero Ottone,
scrisse una serie di memorabili articoli con cui affrontò tematiche che aiutarono milioni di cittadini a capire, da una parte, le trasformazioni della società italiana e a decifrare, dall’altra, la fisionomia degli anni a venire. Le sue analisi, spesso dure e “scandalose”, ma sempre condotte senza indulgenze e senza approssimazioni, suscitarono un vivace dibattito e furono accolte – come sempre avviene quando le tesi sostenute sono di forte impatto emotivo – da alcuni con grande favore e da altri con ostile critica. A distanza di 40 anni, alcuni di questi articoli conservano ancora una loro drammatica attualità e uno di essi, in particolare, tocca fatti che coinvolgono, in un certo qual modo, la vita e le coscienze anche di noi gelesi.
Mi riferisco all’articolo conosciuto come “La scomparsa delle lucciole” con cui il grande scrittore si scaglia contro quella industrializzazione selvaggia avvenuta in Italia negli anni ’60. Industrializzazione responsabile, a suo dire, di una degradazione antropologica senza precedenti. Utilizzando un linguaggio poetico-letterario per semplificare e far meglio comprendere le sue tesi, Pasolini scrive: “Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria e, soprattutto, in campagna a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole.
Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni, le lucciole non c’erano più (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta”. Durante la fase della scomparsa delle lucciole si assiste ad una svolta epocale: nascono nuovi valori e si formano sentimenti morali sconosciuti al vecchio universo agricolo.
Questo periodo ha rappresentato un vero e proprio trauma storico a cui gli italiani reagirono nel peggior modo possibile e diventarono in pochi anni, specie nel centro sud, un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso e criminale. Tutto ciò fu possibile perché questo radicale cambiamento non fu compreso dalla politica che non seppe, di conseguenza, gestirne e governarne gli effetti negativi, diventati poi col tempo irreversibili ed irrecuperabili. Così come è esattamente avvenuto nella nostra città.
La critica di Pasolini a questo tipo di” sviluppo senza progresso” è feroce e lo porta a concludere l’articolo con una dichiarazione dirompente. Scrive infatti: “io darei l’intera Montedison per una lucciola”. Siamo di fronte (così come è stato accusato) ad un esteta che vede le cose con l’ottica di un artista ed è portato quindi a rimpiangere l’età dell’oro? Può darsi! Ma come facciamo, noi gelesi, che di questo devastante processo siamo testimoni diretti e, per certi versi, vittime innocenti, a non riconoscere in questo articolo delle terribili qualità profetiche? Si sarà comportato, il grande scrittore, da inguaribile pessimista? E’ probabile! Ma come facciamo noi gelesi a condividere questo giudizio, quando il disastro economico, ecologico, urbanistico e antropologico causato dall’Eni alla nostra città, è così evidente e sotto gli occhi di tutti? Ora, se l’Eni ha deciso di abbandonare definitivamente la nostra città, ponti d’oro, a patto però che ci restituisca le lucciole.