Gela. L’operaio trentenne Francesco Romano, deceduto alla radice pontile della fabbrica Eni dopo essere stato travolto da un tubo da otto tonnellate, fu vittima della “somma ingiustizia”, quella di “morire mentre lavorava”. L’ha spiegato l’avvocato Emanuele Maganuco, legale di parte civile, che assiste i familiari della vittima. E’ toccato agli avvocati che rappresentano i familiari dell’operaio concludere, ribadendo le richieste di condanna per tutti gli imputati, già formulate dal pm Luigi Lo Valvo. A processo ci sono imprenditori delle aziende che lavoravano in appalto, funzionari e tecnici, ma anche manager Eni. L’avvocato Salvo Macrì, a sua volta legale di parte civile, è andato anche oltre. “Da pubblico ministero – ha detto – avrei chiesto condanne più pesanti. Romano non tornerà più a casa e la tragedia poteva essere ancora più grave. Gli altri lavoratori che si trovavano con lui possono ritenersi miracolati. Sarebbero potuti finire sotto altri tubi”. I legali della famiglia, della moglie e delle figlie dell’operaio hanno ripercorso quanto accaduto, soffermandosi sulla dinamica di quel tragico incidente sul lavoro, che otto anni fa non gli diede alcuna possibilità di salvarsi. Hanno parlato davanti al giudice Miriam D’Amore. “Bisogna rispettare la memoria di Romano – ha esordito l’avvocato Joseph Donegani – obblighi ineludibili non sono stati osservati. Bisognava concludere i lavori entro i tempi fissati, per evitare penali. Carenze e omissioni si sono protratte per un lunghissimo lasso di tempo”. Secondo i legali, è evidente il nesso tra la morte del trentenne e la presunta mancata osservanza delle norme di sicurezza e prevenzione nell’isola 6, che in corso d’opera sarebbe stata trasformata in un’area di cantiere e di assemblaggio, senza averne i requisiti tecnici. La catasta di tubi, dalla quale si staccò quello che travolse la vittima, secondo quanto ricostruito dalle parti civili era tenuta ferma da “un arbusto di mimose cresciuto spontaneamente”, ha aggiunto l’avvocato Macrì.
Vennero individuati puntelli di legno, ormai usurati dal tempo. Ci sarebbe stata una “sequenza infinita di inadempienze”. Al termine della sua requisitoria, il pm Lo Valvo ha già chiesto la condanna di tutti gli imputati e delle società coinvolte. Quattro anni di reclusione sono stati chiesti per Rocco Fisci, Marco Morelli, Patrizio Agostini, Sandro Iengo e Vincenzo Cocchiara; tre anni, invece, per Bernardo Casa, Ignazio Vassallo, Fabrizio Zaneroli, Alberto Bertini, Guerino Valenti e Serafino Tuccio; due anni e sei mesi ad Angelo Pennisi e Salvatore Marotta (con il riconoscimento delle attenuanti generiche); due anni, infine, per Nicola Carrera, Fabrizio Lami e Mario Giandomenico. Rispetto alla posizione di Raffineria, dall’accusa è stata mossa la richiesta di condanna al pagamento di 500 quote (1000 euro a quota). 500 quote anche per Pec srl (750 euro a quota), 1000 quote per Scs Sertec (1.200 euro a quota) e 1.000 quote a Cosmi Sud (800 euro a quota). Dopo le parti civili, è toccato ai primi difensori sostenere le posizioni dei loro assistiti. L’avvocato Carlo Autru Ryolo ha spiegato che non ci sarebbero state irregolarità nelle definizione dei piani operativi di sicurezza né nella redazione dei moduli, previsti per definire le misure di prevenzione nel cantiere. Allo stesso tempo, si è soffermato sulle funzioni svolte dai coinvolti nella successiva indagine, che ha poi portato al processo. Nel corso della prossima udienza toccherà ad altri legali di difesa concludere.