Ravenna. Un ritardo definito inspiegabile nelle terapie adottate per un paziente che alla fine morì a 53 anni a causa di un tumore. È la ragione per la quale l’Ausl di Ravenna è stata condannata a pagare più di due milioni e 300 mila euro agli eredi dell’uomo.
Il giudice Alessandro Farolfi, della sezione civile del Tribunale romagnolo, ha inquadrato giuridicamente il caso come problema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, rilevando «una sicura negligenza e sottovalutazione dei risultati diagnostici, oltre che un inspiegabile ritardo nell’adozione di terapie utili». In particolare è stata rimproverata la scelta, definita di «wait and see», impropriamente adottata dai medici per oltre un anno.
Il paziente, originario di Gela (Caltanissetta), era morto il 30 gennaio ’99 a causa di una neoplasia della vescica urinaria.
Il carcinoma gli era stato diagnosticato nell’agosto di quattro anni prima ed era stato trattato per la prima volta nel dicembre ’95 nel reparto di Urologia dell’ospedale di Ravenna. Gli esami avevano evidenziato un alto grado di malignità e quindi di rischio di recidive. L’uomo era stato dimesso con prescrizione di controlli periodici. Nel luglio dell’anno dopo, uno specifico esame delle urine aveva evidenziato la presenza di «elementi neoplastici». A settembre e a dicembre altri esami avevano messo in luce una «sospetta recidiva neoplastica». Nel giugno ’97 un ennesimo controllo aveva di nuovo messo in evidenza «elementi uroteliali neoplastici», anche se l’esplorazione delle pareti interne della vescica aveva restituito l’assenza di «segni certi di recidiva vescicale».
Da quel momento non era più stato fatto alcun ulteriore approfondimento diagnostico. Ma nell’ottobre ’98 l’uomo era stato ricoverato per un problema vascolare e qui gli era stata prescritta una nuova visita urologica. Tanto che a novembre gli era stata certificata una «sospetta recidiva neoplasia vescicale» con prescrizione di ricovero urgente. A quel punto era stato operato, ma era morto dopo un paio di mesi.