Gela. E’ stato respinto il reclamo presentato dalla difesa del cinquantaseienne Peppe Alferi, ritenuto a capo di un gruppo criminale, individuato con il blitz “Inferis”. Rimane al 41 bis, il regime del carcere duro, impostogli subito dopo l’arresto. Il suo legale di fiducia, l’avvocato Maurizio Scicolone, si era rivolto ai giudici del tribunale di sorveglianza di Roma, competenti a decidere. I magistrati capitolini hanno però detto no alla revoca, ritenendo che Alferi sia ancora una figura di spicco della criminalità gelese. Dalla Direzione nazionale antimafia era arrivata la richiesta di conferma della misura. La difesa è pronta a rivolgersi alla Cassazione. Per il legale di Alferi, ormai da tempo non ci sarebbero più elementi che possano far concludere per un collegamento con esponenti mafiosi. Sono stati contestati i richiami fatti ad operazioni, più recenti, come “Mutata arma” ed “Extra fines”, volte a bloccare la presunta riorganizzazione dei Rinzivillo. La difesa, anche nel corso del giudizio davanti al tribunale romano, ha spiegato che non c’è mai stata prova di collegamenti tra Alferi e altri clan del territorio. Lo stesso cinquantaseienne ha sempre negato di essere a capo di un gruppo mafioso. “Non sono un boss”, ha detto nel corso del giudizio che lo ha coinvolto. La difesa si prepara a ricorrere in Cassazione, convinta del fatto che la decisione sia arrivata in un “clima” di forte sfavore, dovuto al dibattito che si è aperto sulle scarcerazioni di esponenti di organizzazioni mafiose. Nel caso di Alferi, però, si ritiene che ci siano tutte le condizioni per arrivare ad una decisione diversa, che lo faccia ritornare ad un regime detentivo ordinario. “Questo clima può aver influito – spiega il legale – e cercheremo di ottenere una valutazione differente in Cassazione”. Il reclamo è stato fondato anche sulle conclusioni dei giudici che si occuparono del procedimento scaturito dall’inchiesta “Inferis”.
La difesa è certa che non ci siano riscontri per collegare gli Alferi ai clan di mafia, mentre gli investigatori ritengono che avessero costituito una terza famiglia criminale, autonoma sia da Cosa nostra che dalla stidda.