Gela. E’ accusato di favoreggiamento alle organizzazioni mafiose perché, stando ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, avrebbe omesso di raccontare importanti particolari
sulle ultime ore di vita del sedicenne Fortunato Belladonna, trucidato nel luglio del 1998. Fu ritenuto autore di una rapina finita nel sangue, quella alla rivendita di generi alimentari gestita a San Giacomo da Orazio Sciascio. I clan ne decretarono la morte.
Così, davanti al collegio presieduto dal giudice Paolo Fiore, affiancato dai magistrati Manuela Matta e Vincenzo Di Blasi, è finito Rosario Collodoro.
L’imputato, assolto da ogni accusa proprio per la vicenda dell’omicidio del giovanissimo, si trova nuovamente a giudizio. Di quel fatto si autoaccusarono due collaboratori di giustizia, Carmelo Billizzi e Gianluca Gammino. Collodoro, in base alle accuse, avrebbe negato che, il giorno dell’uccisione, si trovava proprio insieme a Belladonna e, quindi, di sapere che a prelevarlo furono i killer di cosa nostra con l’obiettivo di ucciderlo.
I resti di Belladonna vennero ritrovati in un canneto lungo l’attuale bretella stradale Borsellino. Proprio i due autori dell’omicidio sono stati sentiti in aula.
Si sono, però, contraddetti soprattutto nella descrizione di quelle concitate ore.
“Non appena individuammo sia Belladonna che Collodoro – ha detto Billizzi – comunicai a Gammino, con la scusa di fargli visionare una partita di marijuana da piazzare in città, di portare con sé proprio Belladonna. Io, invece, mi allontanai con Collodoro e lo accompagnai, in motorino, nell’abitazione di Rosario Trubia. Era una strategia per dividere i due compari e lasciare da solo Belladonna”.
Gammino, nella sua deposizione, invece, ha fatto riferimento alla presenza nei pressi del bar Chantilly, dove vennero fermati sia Belladonna che Collodoro, di Rosario Trubia che nella versione resa da Billizzi non si sarebbe trovato in quel luogo. Un particolare emerso durante l’esame condotto da uno dei difensori di Collodoro, l’avvocato Salvo Macrì che è affiancato dal collega Delfino Siracusano.
“Dopo averlo interrogato – ha confermato Billizzi – lo uccidemmo. Gli infilammo uno straccio in bocca per evitare che potesse respirare. Gettammo i resti tra i rifiuti presenti nel canneto”. Alla prossima udienza, già fissata per l’11 marzo, verrà sentito proprio Rosario Trubia.