Gela. Domani saranno passati 29 anni da quella sera del 27 novembre del 1990 in cui la città sprofondò in un baratro di sangue, ferita a morte da una guerra spietata tra clan rivali in quella che fu definita la “strage di Gela“. Quattro agguati, quasi in simultanea, in altrettanti luoghi del perimetro urbano con un bilancio pesantissimo: otto morti ed undici feriti. La famiglia mafiosa degli “Stiddari” pianificò e sferrò agguati all’indirizzo dei rivali di “Cosa Nostra”. Il primo fu messo a segno in corso Vittorio Emanuele, a pochi passi da piazza Salandra, all’interno di una sala giochi. Due i ragazzi uccisi nel locale; una terza, perse la vita mentre tentava la fuga. Il suo corpo esanime fu trovato a pochi metri dall’ingresso del circolo. Erano le 19. Sette minuti dopo, in via Settefarine, furono assassinate altre tre persone. Si trovavano dinanzi ad una baracca di ortaggi. I colpi di arma da fuoco raggiunsero anche alcuni avventori. Poco prima delle 19.20, altri due agguati ed altre due vittime. Teatri della sparatoria, via Settefarine e via Venezia. Una carneficina. Gente impaurita, rivoli di sangue ovunque, sirene spiegate. Il telegiornale di Telegela cominciò un’edizione straordinaria, cercando di raccontare con i mezzi a disposizione (non c’erano ancora i telefonini) quanto stava accadendo. Gli stessi giornalisti dell’epoca, ebbero enormi difficoltà nel redigere gli articoli. Mentre si scriveva, infatti, furono costretti a ricominciare daccapo. La sequela di morte, minuto per minuto. L’inferno si era materializzato, la lotta tra i due clan mafiosi aveva toccato il punto più estremo di una guerra scoppiata il 23 dicembre di tre anni prima. Due consorterie mafiose, per un unico obiettivo: il predominio del territorio. Incutevano paura a tutti. Comandavano loro. Ragazzini spietati con le armi (baby killer), affascinati dai soldi facili proposti da chi stava al potere. Nel linguaggio mafioso, premere il grilletto era come sorseggiare un caffè. E taglieggiare i commercianti (a tappeto) era facile. Nessuno degli esercenti si ribellava. Tanta era la forza criminale che si presentava al loro cospetto, che tutti ubbidivano. E pagavano. E dovevano stare in silenzio. La parola denuncia, non esisteva in nessun vocabolario. “Tutti negavano di avere pagato per paura. Era una situazione difficile che poteva essere affrontata solo con decisioni forti!” A parlare é il colonnello dei Carabinieri Mario Mettififogo, 55 anni, varesino di Cassano Magnago, dal 1989 al 1993 (in piena faida criminale) in servizio alla compagnia di Gela. Giunto coi gradi di tenente, acquisì sul campo quelli di capitano per guidare i militari in servizio nella caserma di Piazza Roma. Adesso, dopo altri prestigiosi incarichi in diverse parti d’Italia, é capo centro Dia (Direzione Investigativa Antimafia) di Genova. L’ufficiale dei Carabinieri, ricorda la mattanza del 27 novembre.
“Arrivarono molte chiamate dei cittadini che segnalavano sparatorie in quattro parti diverse della città ed in contemporanea. Io mi recai alla sala giochi. Qualche secondo prima che arrivassi, i killer erano fuggiti lungo il corso Vittorio Emanuele. Ricordo che per la prima volta, vidi la strada principale completamente sgombra. Le persone erano tutte sui marciapiedi per evitare di essere travolte dai mezzi di soccorso”.
In poco meno di mezz’ora, a Gela successe l’imprevedibile.
“Lo scenario – aggiunge – era quello di una mattanza. Morti e feriti erano per terra dentro la sala biliardo, altre fuggivano per strada. La prima cosa che ho pensato è che avessero sparato nel mucchio senza discernimento”. Fu un vero e proprio colpo allo stato con diversi morti e feriti. Intuì che si era giunti ad un punto di non ritorno? “Quella notte pensai che avevamo toccato il fondo e da lì si poteva solo risalire”.
Quando vide i corpi crivellati a terra, pensò che la guerra di mafia non avrebbe mai avuto fine? ” Pensai che era giunto il momento di dare la sveglia ad alcune istituzioni dello Stato, fino a quel momento dormienti”.
I suoi uomini erano impauriti di quanto stava accadendo? Cosa le dissero?
“Uomini del Nucleo Operativo disponibili e pronti a risolvere la grave situazione. Quanto accaduto, li aveva resi determinati e forti”. Quella notte arrivò l’alto commissario per la lotta alla mafia, Domenico Sica.
Cosa significò quella presenza?
“Niente, se non dal punto di vista mediatico. Nelle indagini successive, l’Alto Commissario non fornì alcun aiuto concreto”. Si sparava ed uccideva ad ogni ora del giorno. Una carneficina.
Che idea si fece di quanto stava succedendo?
“Era oramai una faida di sangue e sangue chiama sangue in una città, allora, di quasi 80 mila abitanti con un sistema di prevenzione inadeguato. Due, massimo tre pattuglie per turno. Una goccia nel mare”.
Dopo la strage, metteste a terra e fuoco la città alla ricerca dei killer. Fu fatto tutto o con il senno del poi, poteva essere fatto di più?
“Fatto il massimo con i mezzi che avevamo a disposizione”.
Ma perché tanto sangue a Gela?
“Si trattò di una coincidenza di molti fattori diversi: la lotta tra Cosa Nostra e Stidda, la necessità di monetizzare con le estorsioni, il controllo del territorio, i legami di parentela e una serie di imperscrutabili rivalità datate tra delinquenti”.
Lei è cittadino onorario di Gela.
“Onorato del conferimento. Sostengo sempre che Gela é stata martoriata da tanti che però non sono riusciti, fortunatamente, a cancellarne il fascino”.
Cosa si sarebbe potuto e dovuto fare in quegli anni per contrastare la mafia ed evitare più di 100 morti ammazzati ed altrettanti tentativi di omicidio?
“Trattare Gela come se fosse stata Palermo o Catania. Ed invece i rinforzi e gli aiuti necessari arrivarono solo di fronte al rischio di una guerra civile. Voglio ricordare – aggiunge Mettifogo – che in mezzo a quel marasma, c’era chi ci obbligava ad occuparci anche dell’abbattimento delle case abusive o dei furti d’acqua in campagna o delle bancarelle al mercato settimanale…”
A chi non rompe con il passato criminale, cosa vuole dire?
“Chi fa il criminale sa in partenza che è un perdente e che prima o poi pagherà le conseguenze dei suoi atti. Chi persiste in questo atteggiamento può solo essere compatito. Perseverare nell’errore …