Gela. Uno degli imputati, l’ingegnere Salvino Marotta, avrebbe rispettato la disciplina in materia di formazione dei piani di sicurezza, anche nell’area dove sette anni fa si verificò l’incidente mortale, costato la vita all’operaio trentenne Francesco Romano. In aula, davanti al giudice Miriam D’Amore, l’ha spiegato un consulente di parte, chiamato a deporre dal difensore del professionista, l’avvocato Antonio Gagliano. L’esperto ha analizzato lo stato della catasta dei tubi, dalla quale si staccò quello poi fatale al giovane operaio. Romano, che stava lavorando lungo la radice pontile della fabbrica Eni, per conto di Cosmi Sud, venne schiacciato, senza possibilità di salvarsi. Il consulente ha parlato di una “catasta stabile”. Allo stesso tempo, ha spiegato che nessuno era stato informato rispetto alla possibilità che venissero effettuate movimentazioni. Non ha però negato che i puntelli, usati per bloccare i tubi, non erano affatto adeguati. Tra le contestazioni mosse agli imputati, c’è l’omicidio colposo. Ne rispondono Bernardo Casa, Ignazio Vassallo, Fabrizio Zanerolli, Nicola Carrera, Fabrizio Lami, Mario Giandomenico, Angelo Pennisi, Marco Morelli, Alberto Bertini, Patrizio Agostini, Sandro Iengo, Guerino Valenti, Rocco Fisci, Salvatore Marotta, Serafino Tuccio e Vincenzo Cocchiara.
Il testimone ha risposto alle domande del pm Luigi Lo Valvo, a quelle dei legali di parte civile (gli avvocati Joseph Donegani, Salvo Macrì ed Emanuele Maganuco) e delle difese. Ha ripercorso possibili cause del crollo della catasta, senza escludere le condizioni meteorologiche di quelle giornate. Per i pm della procura, però, la morte di Romano, i cui familiari sono parti civili nel giudizio, sarebbe stata causata da una lunga sequenza di violazioni, a cominciare da quelle delle norme in materia di sicurezza.